Lapidazione (ideologica) in primo grado

Lasciateli lavorare, Dolce e Gabbana e tutti gli altri imprenditori italiani che, per tigna o per miracolo, non hanno ancora venduto allo straniero. Lasciateli lavorare, non boicottateli, non lapidateli al primo grado di giudizio come fa, sbattendosene della Costituzione, l'assessore milanese Franco D'Alfonso

Lasciateli lavorare, Dolce e Gabbana e tutti gli altri imprenditori italiani che, per tigna o per miracolo, non hanno ancora venduto allo straniero.

Lasciateli lavorare, non boicottateli, non lapidateli al primo grado di giudizio come fa, sbattendosene della Costituzione, l'assessore milanese Franco D'Alfonso. «Non bisogna concedere gli spazi simbolo della città a personaggi famosi e marchi vip che hanno rimediato condanne per fatti particolarmente odiosi in questo momento di crisi economica come l'evasione fiscale», dice, riferendosi ai due stilisti, questo politico locale per il quale la crisi economica dev'essere un'idea molto astratta altrimenti avrebbe tolto il «non» dalla sua frase.

Bisogna, al contrario, concedere tutti gli spazi possibili e immaginabili ai marchi italiani, e proprio perché c'è la crisi. Se non ora che le aziende hanno urgente bisogno di visibilità, quando? E se i marchi sono vip tanto meglio. Forse D'Alfonso non conosce l'inglese? Anch'io me la cavo piuttosto male, però, dai e dai, ho scoperto che la I di VIP significa importante. Forse l'assessore preferirebbe concedere Piazza Castello a un marchio insignificante? Dietro a un marchio vip c'è un'azienda che dà tanto lavoro, che genera tanto reddito, che paga tanti stipendi, tanti affitti e tante bollette, comprese quelle che garantiscono i servizi comunali e gli emolumenti degli assessori.

Non è il momento di indulgere nello snobismo e lo dico io che di Dolce&Gabbana non possiedo nemmeno un pedalino e le giacche me le faccio cucire su misura da un sarto maremmano. Ma chiaramente non è quella delle piccole sartorie la strada per uscire dal triste tunnel della deindustrializzazione. Le botteghe sono una cosa meravigliosa però nel mondo ci vanno le aziende strutturate, appunto i marchi vip senza i quali l'Italia dell'abbigliamento sarebbe una landa desolata, una terra di saccheggio a completa disposizione dei vari Louis Vuitton e Zara. Come se non lo fosse già abbastanza. Temo che nemmeno la reazione di Stefano Gabbana, uno sfogo comprensibilissimo, sia una gran soluzione: «Comune di Milano: fate schifo!». Così ha digitato lo stilista su Twitter e il cinguettio non sarà certo piaciuto a interlocutori pregiudizialmente, ideologicamente ostili alla libertà d'impresa. L'intera faccenda deve al più presto uscire dalle secche dello scontro personale.

Stefano Gabbana non è Dolce&Gabbana, che va invece considerato come un marchio super partes, una risorsa nazionale da tutelare a prescindere da antipatie e simpatie. Franco D'Alfonso non è la città di Milano che, invece, potesse parlare, prenderebbe senza dubbio le parti di chi ha dimostrato di possedere laboriosità, talento, iniziativa. Negare Piazza Castello, o altro scenografico spazio cittadino, alle sfilate del marchio Dolce&Gabbana, più che un dispetto ai titolari, che di soldi in questi anni di successi ne avranno guadagnati parecchi, è un problema per dipendenti e fornitori.

Molti di loro tengono famiglia e mutuo: perché mai dovrebbero pagare per gli eventuali reati fiscali dei loro titolari o clienti? Forse D'Alfonso sogna di municipalizzare il marchio e andare a dirigerlo personalmente? A proposito: l'amministratore precisa di aver parlato a titolo personale e questo, dopo gli insulti al lavoro, è un insulto

all'intelligenza. Fosse stato un semplice cittadino nessuno se lo sarebbe filato. Nessuno al mondo si interessa a simili dichiarazioni se non quando provengono dalla bocca di un politico. Che avrebbe fatto meglio a tacere.

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