Se conosci Tonino, eviti Beppe

Per anni Di Pietro è stato usato dai politici nonostante le sue ombre. Non ripetiamo l'errore

Che Di Pietro fosse il classico demagogo all’italiana, un personaggio insincero, che tirava a potere e solidità patrimonia­le, scavando da piacione nella vena inesauribile della lotta alla corruzio­ne, fingendosi un procuratore in cro­ciata, un giansenista e moralista con le scarpe grosse da contadino e mol­ti peccadillos da farsi perdonare, che avesse famiglia alla Longanesi e anzi fosse il prototipo stesso dell’italiano che ha famiglia, lo sapevamo tutti. Da subito. Poi è arrivata la commissa­ria Gabanelli, con il finale gesto del maramaldo,e l’ha seppellito fino al­la ultima zolla, cioè la beffa di Grillo, un altro Di Pietro in fila per uno, che lo ha proposto per il Quirinale. Milano è un villaggio. Tutti sapeva­no tutto di tutti. Lui arrestava, istruiva processi-bomba, percorreva in fa­vore di telecamere corridoi fatali accompagnato da avvocaticchi con i quali concordava l’uscita de­gli arrestati dalle camere di sicu­rezza in cui si riscuoteva con la pa­ura del carcere la confessione, ma già si sapeva tutto di quel co­raggioso magistrato in carriera politica. Si sapeva che non era uno stinco di santo, che le sue ca­dute di stile erano piuttosto pe­santi, che il tout Milan era pieno di gente di denari che aveva avuto rapporti spuri con l’ex poliziotto laureato di fretta e messo lì a fare da battistrada dei professorini dell’anticorruzione del pool,si sa­peva quel che è venuto fuori pub­blicamente dopo, e cioè che ave­va avuto rapporti inconfessabili con un pezzetto dei servizi diplo­matici (e altro) americani, che la sua storia di pm antipartito era la storia stessa di come veniva calan­do la cortina di ferro della guerra fredda. Si sapeva che era un corag­gioso molto particolare, perché quando Bettino Craxi lo sfidò in te­levisione, con tutto che lui era il vincente e Craxi un candidato al­la latitanza e a svariate condan­ne, Di Pietro si mise sull’attenti e quasi non pronunciò verbo, e per questo fu disprezzato da noi po­chi e sgridato dai generali in pol­trona che dalla tolda delle reda­zioni speculavano sulle sue in­chieste per abbattere la Repubbli­ca dei partiti, senza sapere che un certo Berlusconi avrebbe poi tol­to l­oro la voglia di fare strani espe­rimenti con la storia bistrattando­li per quasi vent’anni. Si sapeva che voleva solo fare politica, en­trare in Parlamento, diventare mi­nistro e uomo di partito al posto di quelli che c’erano prima:loro a capo di partiti marciti nella corru­zione ma gloriosamente fondato­ri di una Repubblica, lui signor nessuno, molto ignorante fin dal­la lingua che parlava, il classico bi­folco inurbato orgoglioso del­le­proprie catti­ve maniere.

Di Tonino si sapeva tutto, compresa la scatola da scar­pe che contene­va i c­ontanti re­stituiti senza in­teresse al pre­statore di ultima istanza del suo distretto giudiziario, il fornitore di Mercedes da rivendere Gian­carlo Gorrini. Si sapeva di appar­tamenti a sbafo, di rapporti spuri con l’indagato di Tangentopoli che «stava un gradino sotto Dio». Eppure gli italiani lo amavano o fingevano di amarlo. Gli italiani di establishment , avvocati e gior­nalisti e altri opportunisti della Milano da spolpare, e gli italiani del popolo, poveri illusi dei pro­cessi televisivi di un giorno in pre­tura , erano anche loro incantati da lui, il vendicatore dei torti. Ri­cordo gli ultimi giorni piovosi di campagna elettorale nel Mugel­lo, e mi rivedo piccolo kamikaze ti­gnoso in viaggio tra quei palazzo­ni del collegio dove ogni finestra era un voto per Di Pietro, a Sesto Fiorentino, poco dopo comizi sur­reali in cui io, comunista di scuo­la togliattiana e di famiglia, poi an­ticomunista per scelta, spiegavo ai comunisti fiorentini e mugella­ni che stavano per votare Di Pie­tro, molto a malincuore, che tipo fosse il beniamino scelto per loro da D’Alema e da Prodi, e dovevo farlo con il palchetto in piazza scortato e protetto dai fascisti che da decenni non avevano fatto sen­tire la loro voce in quei quartieri di bestiale e radicale egemonia politica cooperativa, socialista e comunista.

Mi annoia la vittoria scontata e postuma sul fantasma di quel ma­laccorto furbacchione. Sono an­che contento che sia toccato ai controinquisitori di sinistra della Raitre il compito non proprio gra­devole di bastonare il cane in ac­qua. Uno del gruppo della Gaba­nelli, Bernardo Iovene gran razza di cronista, venne nel Mugello nel 1996 e fece un bel documenta­rio, e ha aspettato quasi quindici anni per avere ragione del fanta­sma di politico demagogo che aveva girato mentre era al­l’opera, e scap­pava, nell’am­biente blinda­to della Tosca­na rossa. Se la rievoco, que­sta brutta sto­ria italiana, è solo per mette­re in guardia da nuove apparenti vittorie di nuovi furbacchioni. La politica è anche avventura ma non svelti­na.

O hai qualcosa di solido da pro­po­rre oppure la tua traversata del­lo stretto è

destinata a rivelarsi per quel che è, una escogitazione solipsista per ingannare il popo­lo, così pronto a farsi turlupinare, per passione, per rabbia, per go­la, per totale ignoranza delle rego­le del gioco pubblico.

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