Dunque, anche un braccio di ferro unisce l'Italia. L'Italia dei coerenti. Unica condizione che non si vada troppo per il sottile. Che non si vadano, cioè, a cercare scomodi precedenti nelle «disavventure», in cui si trovò coinvolto, per identici motivi di chiacchiere telefoniche, per la verità ancor più innocue, un tale Berlusconi Silvio, giusto per fare un esempio. Perché in questo caso le procedure possono essere violate e l'interlocutore autorevole, meglio se premier in carica, può venire «giustamente» indagato anche se non c'entra nulla. Anche se non parla nemmeno con qualcuno che indagato è, è stato o diventerà. Chissà se il procuratore aggiunto di Palermo si è reso conto della differenza di trattamento, adesso che deve vedersela con la «furia» che soffia dal Colle.
Ma veniamo ai fatti. Che ci aiutano sempre meglio a capire teoremi, sentenze e predicatori. Il presidente della Repubblica grida allo scandalo e tuona contro l'uso e l'abuso delle intercettazioni che, nel caso di specie, l'hanno visto come «vittima». E affida, notizia di ieri, all'Avvocato generale dello Stato l'incarico di rappresentare la presidenza della Repubblica nel giudizio per conflitto di attribuzione da sollevare dinanzi alla Corte costituzionale nei confronti della Procura della Repubblica di Palermo.
La medesima Procura di Palermo, piuttosto avvezza alla pratica dell'ascolto di conversazioni, questa volta alza le mani e ammette che non ha origliato per il gusto di origliare le conversazioni del capo dello Stato ma perché c'era in corso un indagine di mafia etc etc e comunque afferma, ribadisce e sottoscrive che nulla, nemmeno una parolina della presidenzial conversazione verrà data in pasto ai soliti giornalisti-avvoltoi.
A sostegno della medesima tesi ecco che il gran regista di mille intercettazioni, appunto il procuratore aggiunto Antonio Ingroia, al termine di un supervertice fra colleghi, avvenuto ieri a Palermo, si premura di sottolineare che «non ci sono intercettazioni rilevanti nei confronti di persone coperte da immunità» né dunque nei confronti del presidente della Repubblica né dell'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino. Una puntualizzazione, quella di Ingroia, che si riferisce alla norma secondo cui le autorizzazioni devono essere richieste dai magistrati solo quando le intercettazioni siano considerate rilevanti. E proprio qui sta il punto. Erano così rilevanti le intercettazioni di Berlusconi mentre parla con Giampaolo Tarantini distillate a pubblicate da una folta schiera di quotidiani? Erano fondamentali per le sorti dell'Italia e di eventuali indagini di mafia? E della determinante conversazione telefonica tra Berlusconi e il direttore di Rai-fiction, Agostino Saccà, finita in ossequio sempre alla riservatezza dei giudici addirittura su Youtube? E Walter Lavitola? Dove li mettiamo i vari colloqui telefonici «destabilizzanti» con il Cavaliere, puntualmente registrati e «messi in onda». Come mai, in tutti questi casi il metodo Ingroia, è stato, come dire, interpretato in modo bizzarro? Come mai il Cavaliere ha potuto venire sempre e comunque intercettato, e spesso, se non sempre indagato, per le sue chiacchierate telefoniche?
Inutile dire che il plauso all'iniziativa di Napolitano è stato in questa occasione, al contrario delle vicende berlusconiane per le quali nessuno ha gridato allo scandalo, pressoché unanime. «È più che opportuna l'iniziativa del Quirinale». «Porterà chiarezza ed eviterà in futuro contraddizioni e pericolosi conflitti tra poteri dello Stato», ha scritto subito su twitter Enrico Letta, vice segretario del Pd. «Bene ha fatto il capo dello Stato a sollevare conflitto d'attribuzione nei confronti della Procura di Palermo per il gravissimo comportamento del procuratore aggiunto Antonio Ingroia - ha sottolineato il capogruppo Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto - che continua a violare anche le più semplici regole del vivere civile, per non parlare dei suoi violenti strappi alla carta Costituzionale in materia di riservatezza della comunicazioni».
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