Fu Gianni Letta a dire che Paola Severino andava a pennello come Guardasigilli e a indurre il Pdl a dare l’ok a Monti. «Occhio! - avvertirono però parecchi - quella è appiattita su Casini e l’Udc e quindi sul Csm e i magistrati». Così è stato in effetti, con mortificazione di chi avrebbe voluto un ministro riformatore di quella piaga che è la giustizia. Da allora nel Pdl si dice: «Ecco cosa succede quando si dà retta a Letta».
In sette mesi, Paola Severino, con lo schermo dell’attivismo, ha fatto sostanzialmente nulla, nonostante sia una penalista con i fiocchi da cui erano attesi tesori di sapienza. Silenzio sui grandi temi: separazione delle carriere, intercettazioni, arretrati, processi lumaca. Al loro posto, quisquilie. Quanto a lei, ha dato l’impressione di un ministro sbrigativo con chi, come i suoi colleghi avvocati e i parlamentari del Pdl, chiedeva cambiamenti, e invece carino da morire, alla soglia della stuoineria, con le toghe. Le quali, si sa, hanno la grinta di Al Capone contro ogni riforma che li riguardi e un genio leonardesco per aumentarsi i privilegi.
La cosa migliore di Paola sono stati diversi nobili discorsi sull’ignobile condizione carceraria. Ne è anche scaturito un provvedimento che manda ai domiciliari i colpevoli di reati minori con meno di diciotto mesi da scontare. Risultati concreti scarsetti, poiché i tribunali di sorveglianza, per liquidare la pratica, ci mettono nove mesi, vanificando gli effetti della clemenza. Ergo: invece delle migliaia preventivate, sono usciti dal carcere solo alcune centinaia di povericristi, lasciando intatto il sovraffollamento. Le va, in ogni caso, riconosciuto il merito di averci provato e quello di avere generato un’illusione che ha consentito a Marco Pannella di astenersi per mesi dallo sciopero della fame che, infatti, ha ripreso solo in questi giorni, dopo l’evidente fallimento dello svuotacarceri severiniano.
Dove però il ministro si è davvero illustrato, è nel vezzeggiare i magistrati. Mentre il governo tecnico si è fatto una religione di mostrarsi gelido con i «portatori di interessi», - Cgil-Cisl-Uil, Confindustria, associazioni di categoria - e la stessa Severino ha tenuto a bada consorzi avvocateschi e Camere penali, di fronte all’Anm - il sindacato magistrati - il gabinetto Monti si è inginocchiato. È gente di mondo e sa che chi tocca una toga peste lo coglie. Il Guardasigilli ha così raccolto i più tenui sospiri dell’Anm. Si è anche inchinata al Csm, la corporazione delle toghe, alla cui guida c’è un caro amico di partito, il casiniano Michele Vietti. Da questo idillio, nascono gli elogi dei magistrati al Guardasigilli, i peana del segretario Anm Palamara, al «mutato clima tra giudici e politica» e smancerie così.
Do due esempi della sudditanza. Il primo, è il nuovo provvedimento severiniano sulla responsabilità civile dei giudici che fanno canagliate nei processi. Per dare ai cittadini un vero diritto di rivalsa, si doveva togliere il tappo contenuto nella vecchia legge Vassalli. È il cosiddetto «filtro», ossia il giudizio preliminare del tribunale se ammettere o no l’azione di responsabilità. E il più delle volte era no, lasciando il vessato con un palmo di naso. Tanto è vero che su centinaia di domande ne passano, sì e no, venti l’anno. Bè, appena il Csm ha alzato la voce, Severino si è guardata bene dal chiedere la rimozione del filtro, che è rimasto. Risultato: il nuovo sistema è inutile come il vecchio. L’altro caso è quello della norma che mette un freno ai «fuori ruolo» dei magistrati. Trecento e più toghe (cinque per cento del totale) sono in giro per ministeri e alte corti, con ruoli di gabinettisti, consiliori, intrufoli vari. Un modo per vedere il mondo e guadagnare il doppio, mentre gli arretrati marciscono nei tribunali. Il Parlamento, da tempo, vuole frenare l’esodo: non più di dieci anni fuori ruolo, mai più di cinque consecutivi, niente superstipendi. I magistrati però da quest’orecchio non ci sentono e la Severino ha fatto carte false per accontentarli. Ha accettato il principio dei cinque anni, ma lo ha infarcito di eccezioni, tanto da vanificarlo. E su questo atteggiamento complice, resta inchiodata la sua immagine. Se Dio vuole, le cose sono poi andate all’opposto. Il pd Roberto Giachetti ha presentato un emendamento che ribadisce tutti i vincoli e il centrodestra lo ha appoggiato. Così, alla Camera, il freno ai fuori ruolo è passato. Vedremo ora se Severino escogiterà nuovi trucchi per favorire le toghe al Senato e sapremo per sempre come giudicarla.
Al ministero, le cose per Paola non stanno andando benissimo. Il sottosegretario da lei scelto, Andrea Zoppini, suo giovane collega di insegnamento all’università Luiss, è indagato in Piemonte e si è dimesso. Con l’altro sottosegretario, eredità del centrodestra, Salvatore Mazzamuto, è ai ferri corti. Mazzamuto è stato vittima di un qui pro quo parlamentare con relativo scandaletto durato un giorno. Severino anziché coprirlo in pubblico e fargli un liscio e busso in privato, lo ha sbugiardato urbi et orbi. Lui se l’è legata al dito e la vede come il fumo negli occhi. L’ha abbandonata anche il capo del legislativo, il giudice Augusta Iannini, colonna del ministero da un decennio (antonomasia del fuori ruolo, di cui sopra). Si conoscono da una vita e parevano tanto amiche. Al suo arrivo, Iannini aveva esaltato sui giornali non solo le virtù avvocatesche del ministro ma anche il suo sartù di riso di cui, da brava napoletana, è maestra. Invece, di punto in bianco, si è fatta eleggere (dal centrodestra) membro della Privacy. E chi s’è visto s’è visto.
Paola Severino è il maggiore specialista nazionale nel Diritto penale di impresa. Il suo campo non sono i crimini di sangue ma le birichinate dei manager, dal falso in bilancio ai fondi neri. Strabiliante il parco clienti: da Bankitalia a Deutsche Bank, a Unicredit, ai Prodi, i Geronzi, i Gifuni. Deve parte del portafoglio a Giovanni Maria Flick, avvocatone nel cui studio si è fatta le ossa. Quando il venerato maestro nel 1996, lasciò il Foro per gli allori politici - tre anni Guardasigilli di Prodi, nove alla Consulta - Severino ereditò i clienti e si mise in proprio. Oggi che, a sua volta, è entrata in politica, ha lasciato lo studio ai quattordici giovani assistenti, tra cui la figlia, Eleonora. Il cliente più di riguardo è la galassia Caltagirone: il tamagno, Francesco Gaetano, la figlia Azzurra, il genero Pierferdy Casini e il gioiello editoriale di famiglia, il Messaggero, di cui Severino è legale e columnist. Prima di diventare ministro era, inoltre, docente di Diritto penale, preside a Legge e vice rettore della Luiss. Un’autentica fabbrichetta che nel 2010 le ha dato un introito lordo di 7.005.648 euro. La cifra, quando si è saputa, ha generato cali di zuccheri e diffusi travasi di bile nella confraternita degli avvocati. Da Guardasigilli, prenderà invece 195.255 euro.
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