La T di Torino resiste come ultima lettera dell'acronimo: Fiat, Fabbrica Italiana Automobili Torino, così usava dire e pronunciare, anche parlando in inglese, Gianni Agnelli. Che cosa rimane a Torino, di quella Torino? Le due squadre di football, un paio di quotidiani, uno di sport e l'altro della casa madre, destinato, come si sussurra, ad essere messo in vendita, così come sembrava, la Juventus di cui sopra. Torino ha ritrovato luce con i Giochi olimpici invernali (che hanno lasciato debiti e strutture abbandonate), si è ripulita nei quartieri noti, ha accumulato macerie di vita nella sua periferia già lontana e così diversa.
La Torino della moda, del cinema, della Rai, vive di ricordi e a questi si attacca, sperando in un risveglio che non può essere. La Mole dell'architetto Antonelli domina una città antica che pensa di essere moderna, tradita dal suo spirito conservatore e da uno Stato che, lentamente e inesorabilmente, ha costretto gli uomini di impresa a cercare altre sedi, fuori dal Piemonte, fuori dall'Italia. Scomparsi Gianni e Umberto Agnelli, la città ha perso il suo punto di riferimento storico, dopo i Savoia. Chi ne ha preso il posto ha pensato bene che fosse l'ora di lasciare da parte il prestigio, che non fa business, e di puntare al mercato, alla finanza. La Torino di Arpino e di Pavese resiste sotto i portici di via Po, nella grande arena di Piazza Vittorio, prima di smarrirsi nella collina, oltre il fiume. La Torino nera, di Fruttero&Lucentini, quella nobile e sofferta di Primo Levi e del suo «segreto brutto», quella di Norberto Bobbio e di Antonicelli, sta soltanto nei libri e nelle memorie.
Torino di fede e di demonio, di don Giovanni Bosco, San Giuseppe Cafasso e delle messe nere, Torino comunista e liberale. Gli edifici della Rai, tra via Verdi e via Montebello, sono residuati malinconici e slabbrati di un tempo in cui Torino era la voce e la musica dell'Italia, l'orchestra di Cinico Angelini nell'Auditorium, i grandi sceneggiati televisivi. Senza anima è rimasto il grattacielo della Lancia e l'Abarth è una pagina di un diario scolastico. Su tutto c'era Mirafiori, più del Lingotto e dell'inquietante corso Marconi. Il lungo, basso, piatto, bianco palazzo era un gioco dell'oca per noi ragazzi che ci giravamo attorno per capire dove potessero mai finire quel muro, quelle cancellate al di là delle quali, dentro la «Feroce», come veniva chiamata la fabbrica dagli operai, ronzavano le voci di pugliesi e siciliani, napoletani e calabresi, il Sud che era salito tra le nebbie alla ricerca della pietra verde. La Torino di Mimì metallurgico, con le stanze affollate di immigrati, il treno che veniva da Lecce scaricava speranze e povertà, illustrate nelle fotografie in bianco e nero che la Stampa sta pubblicando in queste settimane, invitando i lettori a riconoscersi, a riconoscere gli occhi, i capelli, un volto, una vita smarrita. È la ricerca di un'epoca che si è conclusa, così come la storia della Fiat cambia la propria carta di identità ma non i dati caratteristici, quel superiority complex, un po' piemontese, molto fiattino, tradotto nell'uscita da Confindustria che un giorno fu presieduta da Gianni Agnelli e oggi è evitata da Sergio&John, Marchionne ed Elkann.
Torino fa i conti con il progresso, si dice così quando non si sa bene che cosa sia il progresso medesimo ma si conosce benissimo la realtà di una città che ha nei gianduiotti il suo gusto dolce ma per il resto è avara, a volte aspra, da scoprire di nascosto. Di nuovo luminosa, come non fu nemmeno nella bella époque agnelliana ma sempre in difetto rispetto a Milano e Roma, tanto distanti ma non per questo migliori. Ripensando agli anni Settanta, che furono anche di piombo, riappare alla mente la Gran Torino che fu un omaggio della Ford di Detroit alla fabbrica della Fiat e dalla Lancia, una città simbolo per gli americani che non conoscevano la crisi. La Gran Torino di Starsky e Hutch, di Clint Eastwood, un'automobile che si porta appresso, ancora oggi, una fetta di storia che, come in un film per l'appunto, si riavvolge, riagganciandosi a Detroit, alla Chrysler, al trasloco dell'America in Italia. Chi scrive che la Fiat fugge non si è accorto che, semmai, è l'Italia ad esserci sfuggita. Torino non è un luogo che si abbandona. Non l'ha detto Sergio Marchionne e nemmeno Antonio Conte.
Lo scrisse, a metà dell'Ottocento, Friedrich Nietzsche. Mirafiori era prato e sterpaglia prima di arrivare a Stupinigi. Si andava di carrozza e calesse. Poi arrivò il motore a scoppio e Torino si svegliò con la Fiat.
di Tony Damascelli
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