Inviato a Gaza l’uomo della pace in Irlanda

Se il buongiorno si vede dal mattino, la presidenza Obama dovrebbe essere intensa e, fra l’altro, mattiniera. Il neo presidente al mattino era già alla scrivania della Sala Ovale, al lavoro. Con un’agenda intensa ma soprattutto indicativa delle sue priorità. La situazione economica è molto grave, un nuovo intervento della Casa Bianca urgente, ma Wall Street può aspettare due ore perché Obama, prima, deve occuparsi della pace. E così il suo primo gesto ufficiale è stata una serie di telefonate nel punto più caldo del pianeta, il Medio Oriente. Numero uno Abu Mazen, leader dell’Olp, (nella foto), numero due il premier israeliano Olmert, tre e quattro il presidente egiziano Mubarak e il re di Giordania Abdallah II. Una conferma nei fatti della priorità enunciata nel discorso inaugurale, in cui Obama non aveva nominato la Palestina ma aveva espresso la decisione di aprire un nuovo dialogo con l’islam. Obama ha sottolineato la sua determinazione «a lavorare per aiutare a consolidare il cessate il fuoco» sottolineando che un contributo verrà da «meccanismi efficaci che impediscano ad Hamas di riarmarsi» e anche da un «impegno per la ricostruzione a Gaza». Con un solo obiettivo: «Una pace durevole». Immediata anche la nomina di un inviato speciale: sarà George Mitchell, ex senatore, per metà di origine arabo-libanese, artefice per il presidente Clinton del processo di pace in Irlanda del Nord.
Subito dopo una telefonata con un ordine ai giudici militari di Guantanamo: sospendere per 120 giorni i processi in corso, per consentire a Obama di mantenere la promessa fatta durante la campagna elettorale di chiudere il campo come primo passo per ristabilire la legalità internazionale e costituzionale nel trattamento dei prigionieri per terrorismo.
Solo nel pomeriggio l’economia è comparsa nella Sala Ovale: riunione con i consiglieri economici sul progetto di un nuovo «stimolo» fiscale di 825 miliardi di dollari. Ma subito dopo riecco le realtà della guerra e della pace: ecco il generale Petraeus, l’inventore e autore della strategia che ha portato al miglioramento della situazione in Irak e ora incaricato di cercar di «salvare» anche l’Afghanistan, dove la situazione militare e politica si è evoluta in senso opposto. Consultati anche il ministro della Difesa Robert Gates (come Petraeus «eredità» di Bush) e l’ammiraglio Mike Mullen, capo di Stato Maggiore delle tre armi. Quanto all’Irak, ribadite le istruzioni: preparare un piano di accelerazione del ritiro delle forze di terra Usa rispetto alla tabella di marcia accettata ultimamente da Bush, al fine di concludere la fase bellica secondo il programma di Obama, cioè entro sedici mesi. Sul tavolo anche un’altra urgenza, quella iraniana: si delinea un vertice sul riarmo nucleare: appuntamento in febbraio a Berlino con Russia, Germania, Francia, Gran Bretagna e Cina.
Infine si lavora al calendario dei viaggi all’estero; con una «corsia preferenziale» per un Paese islamico. La scelta dovrebbe cadere sull’Indonesia, per molti buoni motivi.

È il più popoloso fra i Paesi musulmani, sta facendo solidi progressi verso il consolidamento della democrazia ed è uno dei Paesi stranieri che Obama conosce meglio. Da bambino è cresciuto a Giakarta, ha avuto il patrigno indonesiano, laggiù ha dei parenti. E degli amici d’infanzia che martedì hanno festeggiato la «promozione» del loro compagno di scuola.

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