Io, all’attacco con gli italiani sotto il fuoco dei talebani

Farah (Afghanistan)Il vento è un alito di drago tra muretti d'argilla arsi dal sole tra le cupole dei tetti di creta allineati in un deserto di polvere e sassi. Lo chiamano Islamabad, un nome altisonante per uno sputo nel nulla. Dentro scorrazzano i veicoli dell'esercito afghano. Fuori vigilano i blindati del Primo reggimento Bersaglieri. Sono i Leoni della II compagnia, i reduci della battaglia del 25 luglio in cui è rimasto ferito il caporal maggiore Guarna.
Dall'alba battono i principali villaggi del distretto di Shiwan, 50 e passa chilometri a nord di Farah, al seguito di un reparto governativo. «Dobbiamo convincere i capi villaggio a collaborare nello svolgimento delle elezioni» - spiega il colonnello Samad, il capo dei servizi di sicurezza di Shiwan responsabile dell'operazione. Ora è tra le casupole di paglia e fango assieme ai suoi uomini. All'improvviso la radio del nostro Lince s'accende d'un gracchio impertinente «Truppe afghane in contatto, truppe afghane in contatto». Il maresciallo Luca Costanzo si precipita sul microfono, il primo caporale Nicola Giuffrida brandeggia la mitragliatrice, i primi caporali Gennaro e Domenico guadagnano volate e sedili. In un attimo lo schieramento è ai posti di combattimento, i cannoncini dei Dardo sono pronti a inquadrare la minaccia i Lince a muovere. Nessuno fa in tempo a spostarsi. L'intrico di cupole, creta e muretti sputa un nugolo di polvere, uno sciame di veicoli allineati in una corsa nel nulla. La radio si riaccende. «Le truppe afghane hanno individuato due talebani, c'è stata una sparatoria, uno e morto e uno è prigioniero... pronti a fornire appoggio». Il turbine di veicoli, pulviscolo e soldati guadagna una collinetta e si dispone a semicerchio. Un soldato dalla barba bianca mi tira giù dal Lince, mi trascina verso un pick up. «Taleban taleban» urla passandosi la mano sulla gola con gesto assai esplicito. Lo sgocciolìo d'una pozzanghera vermiglia sotto il cassone svela la verità ancor prima che dieci mani sollevino il sudario. Sotto ci sono due occhi sbarrati al cielo, una barba bianca intrisa di sangue, un rivolo mezzo raggrumato che cola dalla tempia. I soldati festeggiano la preda, qualcuno la scuote, qualcuno ride, i più giovani si scatenano con le foto ricordo. Aveva 40 anni, si chiamava Said Tahari ed è uno dei due presunti talebani caduto sotto i colpi dei governativi. Lo spettacolo non è finito. Lo sportellone d'un altro pick up si spalanca, un Sansone in calzoni e canottiera mi si precipita davanti. I bicipiti sono tesi, scolpiti, segnati dalla corda che gli blocca i polsi dietro la schiena. Sul petto le ferite di chi ha lottato per non farsi catturare, negli occhi un balenio di fierezza, odio, confusione. Mi fissa e mi parla come se fossi il suo inquisitore. «Mi chiamo Said Ahmad, ho 32 anni, non sono un talebano, questi soldati hanno sparato al mio amico solo perché aveva un fucile». Un ufficiale gli ride in faccia. «E allora perché siete scappati in moto?». Poi ritorna al pick up, tira fuori un kalashnikov e una giberna con due caricatori, glieli infila al collo. «Guardate cosa si portava dietro il caro Said, guardate anche voi». Said non parla più. La bocca si è chiusa dietro il barbone di pece, nel suo volto saetta solo il carbone delle pupille, rimbalza tra il volto dell'infedele curioso, dei bersaglieri silenziosi, dei militari afghani divertiti e irriverenti. Otto mani lo afferrano, lo schiaffano nel furgone, ci caricano sopra il rottame della sua moto, se lo portano via.

Il colonnello Samad riemerge dal nulla, si fa largo tra i soldati. «Il mullah Wakil e il Mullah Ewaz, i capi dei talebani di Shiwan da settimane minacciano la popolazione per impedire il voto e questi due erano uomini loro, ma stavolta gli è andata male».

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