Non è certamente per un pavido tentativo di mettersi al riparo ma per mostrare fino a che punto di malafede si possa arrivare pur di costruire dei capri espiatori se dico che quel che ha fatto il Gruppo di lavoro sulla formazione degli insegnanti da me presieduto non aveva nulla a che vedere col problema del precariato. Al contrario. La nostra scelta è stata di separare il problema della formazione iniziale degli insegnanti da quello del reclutamento e di occuparci soltanto del primo, il che era peraltro prescritto dal decreto costitutivo della commissione.
Quel che rende grottesche le accuse che ci vengono mosse in certi siti estremisti - e a me in particolare come «vero autore della Riforma che sta sconvolgendo la vita a decine di famiglie» - è che aver separato questi temi è stato il principale motivo di critica che taluno ha mosso al nostro progetto. Noi abbiamo ritenuto che il problema della formazione andasse distinto da quello del reclutamento, in quanto il primo è di natura essenzialmente teorica - a differenza del secondo, più pratico - e richiedesse di essere una buona volta definito a regime, in una prospettiva stabile, e non provvisoria, legata alla contingenza e a misure tampone. Quindi un problema distinto dal reclutamento, per non dire da quello del precariato, che ha una natura di emergenza e può essere affrontato soltanto in termini di scelte politiche volte a superare nel modo più indolore una drammatica eredità accumulatasi in decenni di politiche sconsiderate.
Se il nostro progetto ha qualche cosa a che fare col precariato è casomai nel senso che, per il futuro, esso mira ad evitare la creazione di altre sacche di precari! Ai critici che ci invitavano, secondo il solito metodo all'italiana, a ricorrere al principio di implicazione - A è legato a B, B e C, ecc. quindi o si risolve tutto insieme, o niente (e quindi niente) - abbiamo risposto che, visto che si parla tanto di spirito scientifico, chi vuol affrontare razionalmente i problemi complessi deve saperli distinguerli in sottoproblemi risolubili e non intrecciarli l'uno sull'altro come un nodo gordiano.
Quindi una delle critiche principali (e sbagliata) al nostro progetto è stata di esserci occupati soltanto di formazione. Di altre - un rapporto più equilibrato tra scuola e università nel processo di formazione, più spazio al tirocinio - si è tenuto conto in un processo di consultazione e di confronto a tutto ispirato salvo che a un decisionismo impositivo. In fin dei conti, il nostro progetto ha riscosso molti più consensi che critiche e molti hanno capito che esso prefigura un futuro di maggiore serietà e senza precariato.
Questo, ripeto, tutti hanno dato mostra di averlo capito. Ma ora qualcuno ha deciso di far credere ai precari in agitazione che siamo noi ad aver costruito una «riforma» per farli piangere. In breve, si sta fabbricando in perfetta malafede un capro espiatorio.
In questi mesi, le polemiche in cui ci siamo trovati sono state tutte civili, salvo qualche insulto isolato nei limiti della norma. Ho registrato personalmente i soliti riferimenti al mio «ebraismo» da parte dei soliti estremisti, magari qualche caduta di stile di un funzionario in pensione, qualche frasaccia sul mio cognome («è tutto un programma»), ma sono abituato dalla nascita a questi detriti, che non mi fanno né caldo né freddo. Però stavolta è stato passato un confine: non soltanto per la definizione di «puparo ebreo», quanto per il parallelismo con Marco Biagi rafforzato da un riferimento «teorico» insistito al fatto che, come allora Biagi sarebbe stato lo strumento della costruzione del precariato in generale (cosa che peraltro è un falso macroscopico), così oggi la sua operazione si starebbe riproponendo nella scuola.
Volete la prova che si vuol dir questo a dispetto dei fatti? Nel blog in oggetto, mentre si continua a far finta che il lavoro della nostra commissione abbia riguardato il precariato, l'amministratore ha tentato blandamente di calmare le acque osservando che «i tecnici seguono gli indirizzi politici, non hanno il potere di imporre riforme. Sarebbe come caricare su Marco Biagi la responsabilità della precarizzazione del lavoro. Qualcuno l'ha fatto, ma era un folle terrorista».
La risposta che ha ricevuto è talmente emblematica che non merita commenti (quantomeno per chi conserva un minimo di buona fede): «Ognuno di noi è responsabile di quello che fa. Non esistono tecnici per la dequalificazione della scuola e per terrorizzare decine di migliaia di famiglie. È una scelta politica. In quanto a Biagi certamente è da condannarne l'omicidio ma quando collaborava con il governo avrebbe dovuto chiedersi l'effetto delle sue proposte su una intera generazione di giovani che è incanutita da precaria senza futuro e sull'altra che ne sta seguendo le sorti».
Dunque, non soltanto sono - siamo - ormai bollati come coloro che hanno preso addirittura la decisione politica di terrorizzare decine di migliaia di famiglie, ma l'omicidio di Biagi è condannato con il solito «ma». La tecnica è quella codificata da Goebbels e che, per esplicita ammissione di Hitler, era stata copiata dai metodi stalinisti: ripetere cento volte la stessa bugia perché diventi una verità, fabbricare un capro espiatorio, additarlo al pubblico ludibrio per isolarlo meglio. Qui, poi, l'operazione torna particolarmente comoda, data la natura ebraica di un soggetto implicato, la quale ha una lunga tradizione di demonizzazione.
In queste ore sono arrivate tante manifestazioni di solidarietà che sono davvero confortanti. Ma fino a un certo punto. Perché a fronte delle chiare prese di posizioni di Fioroni e Buttiglione resiste una zona di silenzio. Talvolta, oltre al silenzio c'è di molto peggio. Così Repubblica ha derubricato la vicenda al fatto che il ministro Gelmini avrebbe colto «un'appetitosa chance offerta da un “cretino”» ed ha aggiunto: «Peccato che lo staff del ministro Gelmini si sia basato sulle agenzie senza neanche visitare il sito». Comica gaffe, perché è proprio Repubblica ad aver riferito una balla: «Il vero artefice della riforma è il professor Giorgio Israel, ebreo come lo era Biagi». A parte il fatto che non risulta che Biagi fosse ebreo, il tenore del messaggio era ben altro: «La Gelmini a questa riforma sta dando solamente il nome e la faccia. In realtà, l'artefice dietro le quinte di essa, il puparo, è l'ebreo Giorgio Israel. Come lo era Biagi, il riformatore della legge del lavoro, come lo è quel nano malefico di Brunetta». E una visita al sito, e ad altri connessi, avrebbe permesso di constatare che c'era anche dell'altro, e che, come abbiamo visto, non cessa di esserci.
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