Io, parlamentare per un giorno al voto con l’impronta digitale

Roma«Eeee tipitipitipso col calipso, poi si mettono a cantar: ahi ahi, siam messicaani!!!», ricordate la vecchia canzone rinverdita dall’orchestra di Arbore? Non c’è musica normalmente nell’aula di Montecitorio, ancor meno se ne annuncia da martedì quando - assicurano i fautori delle magnifiche sorti parlamentari e progressive - i pianisti si ritroveranno con le dita mozzate (virtualmente, s’intende), però la colonna sonora di ieri non può che essere quella. A mezzogiorno, infatti, è andato in onda il rodaggio del nuovo sistema di voto elettronico, quello sul «modello messicano» appunto, basato sulla rilevazione delle impronte digitali dei deputati. Regista il presidente Gianfranco Fini. A far da cavie, ad allungar le dita insomma, una sessantina di cronisti parlamentari che si sono prestati con sin troppo entusiasmo, i più saggi con semplice divertimento. Il segretario dell’Asp, la loro associazione, s’è prodotto addirittura in un serio pistolotto moralpolitico sollecitando norme regolamentari che consentano «trasparenza e velocità dei resoconti», forse non bastando i ventagli di ogni estate. Come è finita la prova generale? Ottima e abbondante: qualche rilevatore d’impronta o forse un paio di pulsanti che non hanno funzionato, ma questo «è normale» assicurano gli ingegneri, succede sempre nei rodaggi, martedì quando ci saranno deputati veri e votazioni vere, «tutto andrà bene». Se lo dicono loro... Strabiliante però, è il risultato del voto finto degli «onorevoli giornalisti», che Fini ha proclamato con divertita serietà, sulla proposta di legge «costituzionale» presentata da un giornalista «moderato» dell’Ansa per tagliare il numero dei deputati (quelli veri) da 630 a 400: è passato invece l’emendamento di una collega della Dire che tuonando alla leghista contro «Roma ladrona» li ha brutalmente falcidiati a 300. Come i compagni di Pisacane, seppur meno giovani e forti. Approvato a larga maggioranza: 34 voti a favore contro 12 e i soliti 2 astenuti. E mentre il tabellone elettronico s’illuminava, Fini ha ghignato: «La Camera è grata... ».
Ma sì, per un giorno scambiamo le parti. «Guardate che di questa seduta scriveranno i deputati», ha ammonito celiando il presidente. «Se sanno scrivere», ha mugugnato un giornalista mentre infilava le mani come la dea Kalì in tre o quattro buche. Un anziano cronista - il sottoscritto, confesso - s’è alzato lamentando tra il serio e il faceto che non lo facevano partecipare al voto, essendosi rifiutato di farsi prelevare le impronte digitali. Fini lo ha zittito con brutale simpatia, dando un assaggio forse di come intende risolvere il problema, vero, dei deputati renitenti a lasciare le impronte come fossero in questura. «Saranno resi noti i loro nomi», ha promesso ai giornalisti che per un giorno finalmente okkupavano gli scranni invece di assistere in tribuna. La Fini’s list. Additati al popolo come sospetti e impenitenti pianisti. Anche Francesco Nucara che si rifiuta per principio, giura di non aver mani votato per altri e di non essersi mai fatto votare, ma novello Giordano Bruno rivendica: «Quando sono stato eletto in Parlamento nel 1983 credevo di entrare nel tempio della democrazia, non a Regina Coeli».
Ma stiamo divagando. La prova giornalistica era ormai un happening che coinvolgeva anche i colleghi della Bbc, del New York Times e di France Presse venuti a raccontare del primo Parlamento al mondo, dopo il Messico s’intende, che per stroncare l’abuso del voto per procura chiede il riconoscimento dei polpastrelli. Era un accavallarsi di braccia e di dita, «chiedo la parola», un’orgia di passaggi da destra a sinistra, giornalisti che si facevano fotografare seduti al banco del premier, quando uno ha provato a scalare lo scranno più alto i commessi lo hanno bloccato: «E no, se questa foto va in giro per il mondo, che figura ci facciamo?». In tribuna una scolaresca allibita. Fini ha tranquillizzato: «Questa è una prova, e avrete capito che sui banchi ci sono i giornalisti, non i deputati. Però conoscete il problema».
Un monumento andrebbe eretto a quel fine linguista camerale che sembra aver convinto i più a parlare di «minuzie» e non di impronte, con la scusa che il lettore «capacitivo» legge solo alcuni «tratti», piccoli «particolari» delle impronte digitali. Quisquilie dunque, bazzecole, per esorcizzare la pulsione al rifiuto di una forma di riconoscimento sinora riservata ai delinquenti. Come chiamare «non udenti» i sordi, «diversamente abili» gli handicappati, «operatori ecologici» gli spazzini. Se funziona... Per ora hanno lasciato le «minuzie» in 500, Fini ieri è stato il 501°. In 19 si son già rifiutati, 2 sono esenti perché handicappati, pardon «diversamente abili».

Ma se martedì i renitenti risulteranno più di 50, che si fa? I dipietristi, per vocazione identitaria esigono l’obbligo autoritario di lasciare le impronte, Fini aspetta di vedere i numeri definitivi: se restano questi, riconoscerà l’obiezione di coscienza.
Però l’interrogativo inquietante è un altro: e al Senato, dove i pianisti si son sempre esercitati meglio che a Montecitorio, le «minuzie» le lasceranno?

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