Iran, il regime del terrore prepara il patibolo per 56 prigionieri politici

Due li hanno impiccati la scorsa settimana. Nove attendono solo d’infilar la testa nel cappio. Altri 56 sono in lista d’attesa. In Iran la normalizzazione va avanti così. A colpi di corda e sapone, a colpi d’esecuzioni sommarie comminate da poche e ammaestrate corti rivoluzionarie dopo processi rapidi e sbrigativi. Il nuovo grido d’allarme - dopo la notizia di qualche giorno fa su nove imminenti esecuzioni - riguarda altri 56 morituri. Il nuovo gruppo di condannati, secondo un’indagine condotta dagli attivisti del Comitato internazionale contro le esecuzioni (Cice) comprende 11 oppositori in galera a Teheran, 21 detenuti politici del Kurdistan iraniano, 12 presunti separatisti della provincia sud-orientale del Sistan e Baluchistan e altrettanti della provincia orientale di Ahwaz.
La parola d’ordine che riecheggia dietro le imminenti impiccagioni è intimidire, spaventare, terrorizzare. La ragione è semplice ed è marchiata in verde su tutti i calendari iraniani alla data dell’11 febbraio, 31° anniversario della vittoria della Rivoluzione Islamica. Per quel giorno il regime non vuol sentir volare una mosca, non vuole vedere un solo dimostrante in piazza. Per tener sgombre le strade, per soffocare le urla di «morte al dittatore» e impedire che sovrastino gli osanna, alla Suprema Guida Alì Khamenei e al presidente Mahmoud Ahmadinejad rimane ormai solo il «terrore». Ma quella ricetta antica e spietata, ultima risorsa di ogni dittatura all’epilogo, non trova troppi sostenitori, neppure tra i falchi di Teheran. Il primo a metterla in dubbio, il primo a contestarla innescando un’altra divisione ai vertici della già poco omogenea struttura di comando, è lo stesso ayatollah Sadeq Larijani, capo del potere giudiziario del governo del presidente Ahmadinejad.
La nuova crepa emerge niente meno che dal sito ufficiale dell’autorità giudiziaria. Su quelle pagine Larijani sigla un breve, ma lapidario commento. «Qualcuno si aspetta che il potere giudiziario faccia di più per far rispettare la legge, ma questa aspettativa politica è contraria sia alla Sharia sia alla legge ordinaria», scrive l’omologo del nostro ministro di Grazia e Giustizia. Quelle parole rappresentano un vero colpo basso indirizzato ad un potente tra i potenti come l’ayatollah Ahmad Jannati. Questo nuovo scontro intestino, per chi conosce i meccanismi del potere iraniano, non è proprio una bazzecola. Ahmad Jannati è da 22 anni il capo indiscusso del Consiglio dei Guardiani, l’organo costituzionale che dopo le elezioni dello scorso giugno ha convalidato la truffa elettorale e ratificato la vittoria del presidente Ahmadinejad. È, insomma, il rappresentante dell’architrave costituzionale su cui si regge l’autorità dell’esecutivo di cui fa parte Larijani. E da garante del regime l’ayatollah Jannati si arroga la responsabilità d’invocare la legge del taglione per garantire la celebrazione dell’11 febbraio e la difesa dell’ordine costituito. Nel sermone del venerdì recitato a Teheran dopo la duplice esecuzione del 28 gennaio scorso, l’84enne Robespierre della Rivoluzione Islamica, considerato un falco tra i falchi di Teheran, ha esplicitamente accusato di debolezza il potere giudiziario invocando «più esecuzioni per accontentare Dio». «Tutto quel che il governo sta soffrendo – ha spiegato Jannati - è dovuto alla debolezza e alla mancanza di volontà del potere giudiziario di fronte all’esigenza di mandare al patibolo i dimostranti. Se continueremo a dimostrarci deboli il futuro non potrà che rivelarsi peggiore».

Dalla filigrana di quelle parole spietate traspare però tutta la fragilità del regime. Un regime diviso al suo interno. Un regime costretto, 31 anni dopo la conquista del potere, a temere le celebrazioni della propria vittoria.

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