Israele, il governo si ritira da Gaza e Netanyahu si ritira dal governo

Il piano di sgombero delle colonie divide sempre di più lo Stato ebraico

Gian Micalessin

Bibì se n’è andato, ma nessuno, per ora, sembra sentirne la mancanza. Non i laburisti del vice premier Shimon Peres costretti, obtorto collo, a convivere con lui all’interno del governo di unità nazionale. Non gli amici del premier Ariel Sharon, infuriati per la sua lotta intestina al premier, al governo e al ritiro da Gaza. Non i suoi amici della destra del Likud che, da tempo, gli chiedevano di assumere la guida dell’opposizione interna. Non i coloni convinti che il “gran rifiuto” di Bibì sia troppo interessato e troppo tardivo per salvarli dal grande “tradimento” di Sharon. Alla fine si disperano solo gli investitori della Borsa di Tel Aviv ritrovatasi a fare i conti, dopo le dimissioni del ministro, con un crollo di cinque punti dell’indice telematico. Un crollo che Sharon ha subito cercato di sanare nominando, al posto di Netanyahu, il fidato vice-premier Ehud Olmert. Ma intanto c’è chi torna a parlare di elezioni anticipate.
Sul piano politico la lettera d’addio posata da Bibì sul tavolo del Consiglio dei ministri e il suo no alla ratifica della prima fase del ritiro da Gaza hanno insomma soddisfatto tutti. Anche perché il “no” di Bibì e di altri quattro ministri del Likud, rimasti però nel governo, non cambia di una virgola il programma di ritiro. Forte della maggioranza numerica garantita dai laburisti, l’esecutivo d’unità nazionale ha approvato con un secco 17 a 5 la prima fase del “disimpegno”. L’addio di Bibi non innesca dunque nessuna crisi e non mette neppure in forse l’imminente ritiro da Gaza, ma apre la strada a una tormentata lotta destinata probabilmente a dividere il Likud condannandolo alla secessione.
A dar retta a chi conosce Netanyahu, il più soddisfatto dopo quelle dimissioni a sorpresa è soprattutto lui. Quel governo gli andava ormai troppo stretto. Per restarci dentro era stato costretto, a marzo, a votare un ritiro che non solo rappresenta il contrario di tutte le sue convinzioni, ma finisce persino con il garantire la memoria dei posteri al suo acerrimo rivale Arik, garantendogli il titolo d’uomo di pace. La giornata di ieri era dunque il momento migliore per salutare tutti e andarsene. Sul tavolo c’era la ratifica della prima fase del ritiro. Il governo, come prevede il complesso iter procedurale doveva confermare l’abbandono di Kfar Darom, Morag e Netzarim, tre isolate colonie condannate a esser lasciate per prime. Da oggi in poi il percorso del governo, pressato dalle proteste dei coloni e le difficoltà di un esercito costretto ad agire con durezza contro la propria stessa gente, sarà soltanto in salita.
Lo si è visto ieri nella colonia di Kfar Darom dove 15 coloni si sono fatti arrestare dopo una giornata di dure proteste. Dunque quale momento migliore per abbandonare una nave sempre più stretta, in un mare sempre più in tempesta? Sul calendario di Bibì c’era anche un’altra scadenza da non lasciar passare. All’interno del diviso e agitato Likud la destra anti Sharon è alla ricerca di un leader e l’ex ministro Uzi Landau era già pronto a presentare la propria candidatura. Per contrapporglisi e garantirsi l’investitura, Bibì doveva abbandonare in fretta le file del nemico Sharon. L’unica difficoltà era trovare una buona motivazione. Anche in questo Bibì non ha faticato molto. S’era già preparato il terreno qualche giorno fa rilasciando un’intervista al Jerusalem Post in cui rimproverava al proprio governo di ritirarsi da Gaza offrendo al nemico palestinese l’impressione di fuggire sotto i colpi del terrorismo.
Ieri Netanyahu ha confermato quelle accuse definendo il proprio addio al governo «un momento storico». «Ci sono molte vie per raggiungere pace e sicurezza - ha scritto nella sua lettera di dimissioni - ma di certo la via migliore non è un ritiro unilaterale condotto sotto il fuoco del nemico e senza aver ottenuto nulla in cambio». Nella successiva conferenza stampa è andato ancora più duro accusando il governo d’agire con cecità e d’ignorare le raccomandazioni dei servizi di sicurezza che segnalano la crescita della minaccia terrorista. Netanyahu ha terminato il suo quadro a tinte fosche affermando che il disimpegno finirà con il mettere in pericolo Israele e trasformerà la Striscia di Gaza in una base permanente del terrorismo islamico. Parole studiate con attenzione e pronunciate ricordando le mille incognite di Gaza dove i fondamentalisti di Hamas potrebbero aver facilmente la meglio sulla sempre più inconsistente leadership dell’Autorità palestinese.


A dar una mano al dimissionario Netanyahu e alle sue accuse di cedimento di fronte al terrorismo ha contribuito in mattinata anche l’attacco di un gruppo di militanti armati palestinese che hanno aperto il fuoco su un’automobile di coloni israeliani sulla strada per Nablus riducendo in fin di vita un ragazzino di dieci anni.

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