Istanbul, il killer confessa «Dink aveva offeso i turchi Ho fatto bene a ucciderlo»

L’assassino viene da Trebisonda dove fu trucidato don Santoro. Altri sei estremisti arrestati nella città Sospetti su un piano destabilizzante

da Istanbul

«L’ho ucciso perché aveva offeso i turchi. Non mi dispiace di averlo fatto». Così Ogün Samast, 17 anni, ha confessato l’assassinio del giornalista armeno Hrant Dink, avvenuto venerdì a Istanbul. Il killer ha raccontanto di aver letto su internet una dichiarazione di Dink, nella quale definiva il sangue turco «sporco». Per questo Ogün, vicino agli ambienti degli Alperen Ocaklari, un gruppo della destra ultranazionalista turca, ha deciso di ucciderlo. «Prima ho pregato, poi ho sparato», ha raccontato alla polizia subito dopo il suo arresto, avvenuto su un autobus di Samsun sabato sera, mentre stava cercando di fuggire in Russia con una grossa somma di denaro e l’arma del delitto addosso.
Se adesso l’assassino di Dink ha un nome, un volto e le manette ai polsi, sulla vicenda rischiano di addensarsi nubi ben più cupe. Ogün Samast, infatti, veniva da Trebisonda, la stessa città di Ouzan Akdil, il killer di Don Andrea Santoro. Proprio questo particolare ha portato gli inquirenti ad aprire un filone di indagini apposito per vedere se fra i due omicidi ci possano essere collegamenti, come ha annunciato ieri il premier turco Recep Tayyip Erdogan. Non solo. Sabato notte la polizia ha arrestato altre sei persone, che sono state condotte a Istanbul. Fra loro Yasin Hayal, anche lui di Trebisonda, e che ha trascorso 11 mesi in prigione per un attentato contro un McDonald’s. Coincidenze inquietanti, che farebbero pensare a una cellula estremista in quella che appare la città più pericolosa della Turchia e che fa sorgere un interrogativo: chi c’è dietro a questi fanatici? La risposta, per quanto velata, l’ha suggerita due giorni fa l’establishment militare, quando ha mandato a dire a Erdogan che questa volta dovevano essere catturati tutti i colpevoli, lasciando intendere che non avrebbero accettato una seconda volta la motivazione del «gesto isolato di un fanatico», come avvenuto per don Santoro.
In queste ore molti in Turchia stanno facendo aperto riferimento all’incidente di Susurluk del 3 novembre 1996, quando furono trovati sulla stessa auto l’allora direttore della scuola di polizia Huseyin Kocabag, il capomafia Abdullah Catli e l’ex deputato del partito al governo, il Dyp, Sedat Bucak. L’episodio fece scalpore, perché scoperchiò i rapporti fra servizi segreti deviati, ultra-nazionalisti, alti burocrati e capi mafia. Una sorte di eminenza grigia, che in Turchia è nota con il nome di «Stato Profondo», dotato di autonome capacità finanziarie, capace di potenza militare e della quale fanno parte anche ultra kemalisti, che hanno distorto i principi del pensiero di Atatürk. Un movimento che contiene anime dagli orientamenti opposti, lontano dagli ambienti religiosi quanto dall’establishment militare «ufficiale», ma con un obiettivo comune: allontanare la Turchia dall’Europa. Ipotesi da fare invidia a uno scrittore di romanzi gialli, ma alcuni elementi le avvicinano al piano della realtà.
Oltre al monito dei militari, infatti, ci sono le dichiarazioni di Erdal Dogan, avvocato di Dink. Dogan ha dichiarato che l’avvocato Kemal Kerencsiz, più volte accusatore del giornalista armeno, è stato assoldato da Veli Küçük, ex generale in pensione, coinvolto proprio nello scandalo seguito a Susurluk. Il quotidiano Milliyet ha diffuso alcune foto che ritraggono i due in diversi incontri pubblici e ora tutti i quotidiani turchi parlano di attacco alla democrazia del Paese.
Rimane un’ultima domanda: perché questo spargimento di sangue? La risposta è da cercare nel voto per il nuovo presidente della Repubblica, che si terrà in aprile.

Erdogan vuole impadronirsi anche della più alta carica dello Stato, e con la schiacciante maggioranza che si ritrova può farlo senza problemi. Lo «Stato Profondo» glielo vuole impedire e per riuscirci deve destabilizzare il Paese. E il metodo migliore per ottenere questo risultato è armare la mano di giovani fanatici.

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