Italia anni Settanta: il fallimento dei «menscevichi»

Gli errori dei riformisti nell’analisi di Luigi Covatta, dal Sessantotto alla fine della prima Repubblica

Nella sua riflessione sulla natura del politico, il filosofo inglese Michael Oakeshott nega che una comunità possa mai davvero rompere con la propria tradizione, ogni innovazione, anche quella in apparenza più radicale, non potendo essere altro che l’attuazione di una «virtualità» che nella tradizione sia già implicita. Questa osservazione Oakeshott la presenta come un dato di fatto, in se stesso né buono né cattivo. Però giudica fortunata la collettività che di questo destino sia consapevole e sappia usarlo. È ovvio che, quando parla in astratto di collettività felici, è alla sua Gran Bretagna che sta pensando il filosofo. E mi pare altrettanto ovvio che, se dovessimo cercare un controesempio di collettività sventurata, l’Italia potrebbe candidarsi con buone probabilità di successo. Ha dell’incredibile infatti l’ostinazione con cui questo Paese torna periodicamente a pronunciare sulla propria storia la più terribile delle condanne, per rimettersi alla ricerca frenetica di un «nuovo inizio» radicale, e impaludarsi infine in una riedizione dei suoi vizi se possibile ancora peggiore delle precedenti. Ha dell’incredibile, insomma, il masochismo col quale continuiamo a oscillare fra giacobinismo e doroteismo. È per denunciare quest’oscillazione autolesionistica che Luigi Covatta ha scritto il suo Menscevichi. I riformisti nella storia dell’Italia repubblicana (Marsilio). Un libro - intelligente e informato - da condividere largamente, sia nel giudizio negativo che dà in generale del «cambiamento senza riforma» intrinseco all’Italia repubblicana (e non solo repubblicana, ahimè), sia in molte delle sue riflessioni più puntuali. Condivisibili sono soprattutto le considerazioni che riguardano la fase storica successiva alla metà degli anni Settanta: dall’inconciliabilità fra un riformismo ben inteso e il Pci di Berlinguer, al fallimento del tentativo riformista di Craxi (su cui è notevole il giudizio del prefatore, Luciano Cafagna: «Capì cose che se sei un genio fai una di quelle rivoluzioni che sfondano e creano un vero mondo nuovo, ma se non lo sei, il solo fatto di averle capite non basta e finisce per ucciderti»), agli esiti non esaltanti cui ha condotto la crisi della prima Repubblica. Assai meno condivisibili mi paiono invece le tesi che Menscevichi esprime sull’epoca del centrosinistra e sul ’68, tesi un po’ troppo condizionate da una certa «distorsione generazionale» per la quale, giustamente critico della politica italiana degli anni della degenerazione del sistema, Covatta è invece assai più reticente nel riconoscere come le radici della degenerazione vadano cercate anche in alcune dinamiche degli anni Sessanta che lui stesso ha osservato con simpatia o delle quali, studente universitario, è stato protagonista. Il difetto delle analisi di Covatta (e di buona parte della storiografia sugli anni Sessanta) mi pare sia che esse riconducono gli esiti negativi del centrosinistra a un suo presunto fallimento piuttosto che alla sua sostanza profonda. Che la nazionalizzazione dell’energia elettrica si sia risolta nel «consolidarsi (e incarognirsi) ulteriore di una borghesia di Stato» piuttosto che nel formarsi di una borghesia moderna, Covatta finisce così per considerarlo un paradosso, con un’affermazione essa stessa paradossale: quando mai un processo di nazionalizzazione ha mancato di rafforzare i boiardi? Fermo restando che il giudizio storico sul centrosinistra non può che essere sfumato e articolato, insomma, rimane tuttavia vero a mio avviso che esso - non nel suo fallimento, ma nella sua sostanza - ha danneggiato non poco i menscevichi giustamente cari a Covatta, riuscendo nel contempo a danneggiare almeno altrettanto, se non di più, i moderati. Questo per la ragione che, avviando in via definitiva il nostro sistema politico verso una dinamica centripeta e consociativa, ha mischiato riformisti e conservatori, impedendo agli uni e agli altri di fare ciascuno il proprio mestiere, e accentuando gli aspetti più deteriori degli uni e degli altri. Non saprei dire se negli anni Sessanta l’Italia avesse davvero a disposizione un’opzione politica diversa dal centrosinistra. E concordo anche, almeno in una certa misura, con Covatta nel giudicare negativamente il moderatismo che sarebbe prevalso in quella stagione se l’apertura ai socialisti fosse fallita.

Ma davvero quel miscuglio di doroteismo dei fatti e giacobinismo delle parole che fu intrinseco, e non accidentale, al centrosinistra ha danneggiato i menscevichi (e il Paese) meno di quanto avrebbe fatto un’eventuale separazione netta fra giacobini e dorotei?
giovanni.orsina@libero.it

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