da Gerusalemme
Si susseguono in Israele i convegni e i simposi sull’Italia. Si assiste a una sorprendente evoluzione nei rapporti fra questi due Paesi così differenti e allo stesso tempo simili fra loro. Una parte della diversità nasce, da sempre, dalla reciproca ignoranza. Nonostante la massa di informazioni su Israele, il pubblico italiano sa poco sull’ebraismo, la sua dimensione politica e i suoi conflitti e problemi di identità. Per il grande pubblico ebraico israeliano l’immagine dell’Italia è stata a lungo confusa e distorta dagli avvenimenti legati alla seconda guerra mondiale ma anche da una visione della dirigenza sionista di origine europea per la quale l’immagine dell’Italia è rimasta a lungo quella della propaganda austro-ungarica, con Caporetto - non Vittorio Veneto - come uno dei pochi eventi bellici ricordabili.
In un recente convegno a Gerusalemme si è parlato del contributo di Giuseppe Mazzini a quel «nazionalismo parallelo» che per Alessandro Momigliano e per Gramsci ha fatto degli ebrei della Penisola fattori dell’unità d’Italia non differenti dai napoletani o dai veneziani. Ma si è anche parlato di quella che potrebbe definirsi la scoperta - o la passione nuova - degli israeliani per l’Italia. La politica del nostro governo, i viaggi del ministro Fini, le manifestazioni di sostegno e protesta contro le minacce irakene, i cambiamenti stessi nella sinistra italiana vi hanno contribuito. Ma c’è un fattore ancora più profondo e nuovo: la comprensione di quanto gli aspetti del processo di formazione della coscienza nazionale italiana (con le sue guerre di indipendenza, coloniali, conflitti civili e religiosi, col peso dei miti storici, con le delusioni irredentistiche, col difficile innesto di una capitale nazionale su una capitale universale) presentino echi noti col processo di formazione della coscienza nazionale israeliana.
Per la prima volta l’Italia interessa per ciò che è, per la sua complessa e straordinaria identità, non per ciò che fa o ha fatto. Questo fervore di interessi resterebbe accademico se non fosse accompagnato da un fervore di crescenti scambi concreti e reciproci. Che si tratti di letteratura, architettura, mode, arte, ricerca scientifica, collaborazioni industriali e militari, i rapporti fra Roma e Gerusalemme non sono più quelli del passato. A dimostrarlo basterebbe lo «stupefacente interesse» per l’apprendimento dell’italiano che ha indotto il governo di Roma a creare tre posti di «lettore» per corsi di lingua dal livello elementare a quello universitario; a estendere l’attività dell’Istituto di cultura da Tel Aviv a Haifa, a Gerusalemme, da Nazareth a Beer Sheva offrendo corsi ad oltre 4mila studenti; a creare una società di fellows (Amitei Italia) che riunisce centinaia di ex studenti israeliani formatisi negli atenei italiani e che costituisce una rete di contatti e di influenza culturale e politica notevole.
C’è una «passione» per la creatività italiana che non si limita a design, architettura, moda, archeologia, musica, ma si estende alla ricerca tecnologica e scientifica con un numero di accordi governativi e extragovernativi che hanno superato quelli con gli Stati Uniti. È notizia recentissima il finanziamento da parte del Fondo per la ricerca avanzata del Miur, di oltre trenta progetti interuniversitari tra Italia e Israele. Il che ovviamente si riflette anche nell’interscambio commerciale tra i due Paesi che l’anno scorso aveva già superato i due miliardi di euro con le esportazioni italiane in Israele al terzo posto (dopo gli Usa e la Germania).
Non c’è dunque da stupirsi se nelle università israeliane si comincia a studiare l’Italia nel suo complesso storico, politico, culturale, sociale e non più nei suoi aspetti classici come l’arte rinascimentale o la musica operistica. Significativa è poi l’apertura di due corsi sul Novecento italiano nella Scuola interdisciplinare di Herzelyia, il nuovo centro di massima riflessione politico-economica di Israele.
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