Jaycee come Natasha, vita da prigioniere del sesso

New YorkJaycee Dugard e sua madre si sono incontrate, dopo 18 anni, nella suite di un albergo. La donna le ha preso il volto tra le mani: «Jaycee, non sei cambiata, sei sempre tu», le ha sussurrato. Dietro alla ragazza, rapita quando aveva soltanto undici anni, le sue due bambine, nate dalla violenza, figlie del mostro. L’uomo, Phillip Garrido, 58 anni, le teneva prigioniere in una baracca, nel giardino di una villetta come tante, nella contea californiana di El Dorado. La più piccola ha dieci anni; la più grande 15. È nata quando Dugard aveva soltanto 14 anni. Sono state messe al mondo in quella prigione e non sono mai andate a scuola né hanno mai visto un medico.
Sono stati resi noti soltanto questi piccoli frammenti della straziante conversazione proseguita per ore tra una madre che non aveva mai cessato di sperare e una giovane donna trasformata dal mostro in un oggetto sessuale. La vittima non avrebbe mai osato sfuggire da quel giardino-prigione se la sorte, tre giorni fa, non l’avesse aiutata. Tanto che alla madre Jaycee ieri ha chiesto scusa per essersi «abituata» a vivere con il maniaco. «Jaycee si sente così colpevole», ha detto la donna. Insiste: «Mia figlia non è cambiata». Ma quanto rimane oggi delle bimba che correva verso il bus della scuola quando ha incontrato il suo rapitore?
Phillip Garrido aveva già colpito: era entrato e uscito in fretta di galera per aver sequestrato e seviziato una donna di 25 anni. Il mostro ha voluto contattare i giornalisti dalla prigione in cui è già stato rinchiuso e ha detto frasi deliranti: «Quello che è successo all’inizio può sembrare una cosa disgustosa, ma resterete impressionati da una storia toccante», ha spiegato al telefono. Garrido aveva atteso Jaycee come uno squalo dietro i finestrini di una vecchia station-wagon. Aveva come complice la moglie, Nancy. Quelle treccine bionde avevano risvegliato in lui i morbosi desideri di predatore sessuale e il 10 giugno del 1991, nel tranquillo quartiere di South Lake Tahoe, in California del Nord, il mostro aveva colpito: aveva caricato la bimba a forza sull’auto, fuggendo. Solo il patrigno della vittima, Carl Probyn, aveva assistito al rapimento. «Ho visto due individui che caricavano Jaycee su un’auto - aveva raccontato all’Fbi -. Non avevo con me le chiavi dell’auto ma ho aggrappato la mia mountain bike e mi sono gettato dietro all’auto. Quando non la vidi più, tornai a casa di corsa e gridai al mio vicino di chiamare la polizia».
Quel racconto da preziosa testimonianza era poi diventato un alibi: l’unico di un patrigno che sarebbe stato considerato da tutti il solo sospetto nella sparizione di Jaycee. Divorato dal dubbio, anche il matrimonio con la madre della piccola sarebbe finito. «Mia moglie ogni anno si prendeva una settimana di vacanza nell’anniversario della scomparsa di Jaycee e si chiudeva in casa, da sola, a piangere», ha raccontato il patrigno.
A meno di 300 chilometri di distanza l’incubo di Jaycee continuava: prima incatenata e poi rinchiusa in una baracca con una sola lampadina e una doccia fredda, nascosta dietro ad alcune tende, la piccola aveva messo al mondo due figlie, che giocavano in giardino. Ieri una vicina di casa, Diane Doty, ha ammesso di aver spesso sentito le bimbe e di aver domandato a suo marito perché vivessero in una baracca. «Non sono affari nostri, mi aveva detto mio marito». L’Fbi aveva più volte fatto sopralluoghi nella casa, visti i precedenti dell’uomo; ma incredibilmente non aveva mai ispezionato la baracca.

Se Garrido non fosse stato fermato dalla polizia di fronte all’università di Berkeley, con le figlie della Dugard, se lo sceriffo non gli avesse chiesto di andare al commissariato con la madre delle bimbe, Jaycee sarebbe ancora nella casa dell’orrore. Invece si è presentata con il nome di Allissa, dicendo di essere sua moglie, prima di trovare la forza di raccontare la verità.

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