L’America diroccata di Charles D’Ambrosio

Nessuno può dire che cosa sia Il museo dei pesci morti, a meno che non abbia letto le storie di Charles D’Ambrosio - lo scrittore di Seattle nipote di nonni italiani - tradotte da Martina Testa per minimum fax (pagg. 288, euro 13,50). Non guasteremo però la sorpresa rivelando che, nella lingua a tratti ellittica, a tratti goffamente magniloquente, ma sempre immaginifica nelle metafore di un rifugiato salvadoregno in Usa, altro non è che il frigorifero.
Definito con un’immagine metaforica che, stampata nel titolo di un racconto e poi sulla copertina di un libro che ne raccoglie otto, se forse fa perdere l’appetito, mette addosso una certa voglia di leggere. Leggendo poi, frugando nel frigorifero, sorprese se ne scovano a centinaia. Nascoste nei comparti stretti - mai più d’una trentina di pagine a narrazione - di una prosa secca, laconica, asciutta. Aperta ad accogliere grandi motivi: violenza, abbandono, deriva esistenziale, i traumi familiari, i disagi psicologici e sociali. Ma pronta a sventare ogni tentazione di magniloquenza con battute fulminanti, freddure raggelanti che, senza metafore, chiamano le cose con il loro nome. Come quella del regista porno - promessa del cinema prestata all’hard core in attesa di sfondare a Hollywood - che, alla domanda dell’amico scrittore - genio della sceneggiatura prestato alla falegnameria per montare set clandestini con assi laccate di rosso - «E qual è la trama stavolta?», si cala gli occhiali sul naso, lo guarda dritto negli occhi e risponde: «Lui incontra lei».
Charles D’Ambrosio, in una riga - tre parole - la trama di mille storie. Short stories lei ne avrà scritte un migliaio. The Dead Fish Museum e, prima, The Point (di prossima traduzione) l’hanno rivelata un maestro di sintesi e di concentrazione. La forma breve le è più congeniale del romanzo?
«Però sto lavorando a un romanzo, adesso! E sapevo, dal momento che ho buttato giù la prima frase, che sarebbe stato un romanzo. Certo, il racconto è un’altra cosa. Non è solo una questione di numero di pagine. Più che di brevità parlerei di densità. E le migliaia di short stories che ho scritto finora sono nate per reazione a un certo tipo di racconto made in America dopo Raymond Carver. Volevo spingermi fino al limite: quanto breve, mi chiedevo, quanto denso può essere un racconto ancora capace di dare soddisfazione al lettore?».
Al limite «Lui incontra lei» dà ancora a chi legge di che godere. E il minimalismo? Un limite da superare? Si sente, come la chiamano, «il Carver di Seattle»?
«È un’etichetta, come anche quella con la scritta “minimalismo” che ormai si appiccica dappertutto. Lo stesso Carver, che vi ha aderito per un tratto della sua carriera, se l’è poi staccata di dosso. Esiterei a dire minimalista Cattedrale o Una cosa piccola ma buona. È come se avesse voluto toccare un minimum, passarci attraverso e oltre: come se si fosse chiuso davanti una porta per poi spalancarla e dare più respiro alla sua prosa. Dopo la scuola della densità, credo, si può puntare a un progetto più ambizioso. Un romanzo».
E una poesia? Il suo libro, dal titolo in giù, è pieno di espressioni che starebbero in un verso.
«Io non ho mai scritto un solo verso, però (non sono Carver). Ma è così: il racconto è un evento di linguaggio più puro di qualsiasi altra forma narrativa. Il più vicino alla poesia. La prosa di un romanzo è... più prosaica: dilatata in una trama, annacquata, diluita».
Niente acqua per i suoi pesci morti invece. E se la loro mutezza avesse una ragione fisica? C’è quel suo personaggio che aggiusta macchine da scrivere. E racconta di clienti scrittori che picchiano con grande sforzo sui tasti duri «come se dovessero grattar via lettera per lettera le frasi dal terreno». Scrivere è una fatica? Fisica?
«Sempre! Specie se, anziché al computer, scrivo a macchina. Ne tengo chiusa in garage un’intera collezione. Una dopo l’altra le tiro fuori per mettermi al lavoro: muscolare! È una lotta. La mia preferita, una portatile, salta via di lato mentre scrivo. È come una cosa viva con cui devo battermi».
Cita tre grandi che scrivevano a macchina: Hemingway, Steinbeck e Chandler. I suoi padri nobili?
«I padri della letteratura americana. Hemingway fu il Carver di un secolo fa. Steinbeck è il più farraginoso, ma ho amato tantissimo i suoi romanzi e le sue idee politiche che, nei romanzi, sono l’elemento più stridente. Chandler infine, va letto riga per riga come un maestro di prosa. Non sazio della sua narrativa, mi sono divorato le sue lettere, vere lezioni di scrittura creativa. Sarà un caso che ha imparato a scrivere in Inghilterra per poi tradursi in americano?».
E l’America di D’Ambrosio qual è?
«È un paesaggio bellissimo pieno di angoli marci, treni arrugginiti, case diroccate... È una terra di ottimismo e false promesse, di speranza e disperazione. E una cosa non sta mai senza l’altra».
Il contrario dell’amore non è l’odio ma la disperazione, dice a un bambino disperato suor Celestine, una fra le tante sue figure religiose. Tanti suoi personaggi, folli o sacrileghi, pregano. La fede è un sentimento diffuso nella sua America? O è un’urgenza sua?
«Attualmente in America per la fede si fanno follie, ma non mi riguarda. Io sono cresciuto cattolico, però. E ho davvero imparato la mia lingua imparando le preghiere.

Le recitavo a memoria, mettendo le parole nell’ordine giusto senza capirne il significato. Si impara così che cos’è il linguaggio. Se ne intuisce un senso, un desiderio - mai individuale, sempre condiviso - che va spesso al di là delle parole».

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