L’architetto milanese che disegnava l’arte della sobrietà

I l recente libro destinato agli studenti delle medie secondarie, dedicato dalla figlia Lisa all'opera del padre Giò Ponti («Giò Ponti, Milano e i ragazzi», Carthusia Edizioni, euro 8.90) ha riportato improvvisamente alla ribalta uno dei più interessanti architetti italiani, proprio in un periodo in cui i progetti di una grande Milano sono firmati da una serie interminabile di professionisti stranieri, alcuni famosi, altri conosciuti solo dagli addetti ai lavori. Parlare di Giò Ponti può essere utile, non solo al comune lettore ma anche ad attivi amministratori la cui specialità non sta certo nel comprendere la buona o cattiva architettura. «Non è il cemento, non è il legno, non è l'acciaio, non è il vetro l'elemento più resistente. Il materiale più resistente nell'edilizia è l'arte». Questo uno dei celebri motti dell'architetto, designer universale che si impegnò nei campi più diversi: dalle scenografie teatrali alle lampade, alle sedie (universalmente conosciuta la «Superleggera» prodotta da Cassina), dai complementi da cucina a padiglioni fieristici, a cliniche, a stabilimenti, agli interni di case e transatlantici, ristoranti e negozi. La sua architettura è sparsa per il mondo e in tutta Italia, ma certamente le sue opere più significative sono a Milano, forse con l'eccezione della città universitaria di Roma, Facoltà di matematica, una delle prime opere del Razionalismo italiano. Dal 1926 al 1933 tenne studio con il collega Emilio Lancia, per poi passare a collaborare con gli ingegneri Antonio Fornaroli ed Eugenio Soncini fino al 1945. Vediamo da vicino le più significative opere che vivono nella nostra città. La Casa Borletti in via San Vittore, un palazzo destinato all'alta borghesia, ma che nel disegno leggero della facciata, dalle scansioni ordinate e ritmate, rinnova, superandolo, lo stile novecentista; poi l'edificio per abitazioni in via Domenichino, vero e proprio punto di passaggio dal linguaggio delle decoratività degli anni Venti alla ricerca verso più sobrie volumetrie. Il primo manifesto architettonico sulla «Casa moderna» lo troviamo negli edifici di via De Togni dove, con grande anticipazione dei tempi, si pose l'attenzione soprattutto sul comfort, sugli impianti e sulle attrezzature. Poi la casa Marmont in via Gustavo Modena, vero esempio di razionalismo, per la quale l'architetto disse: «Qui vi sono alcuni concetti al di fuori dai quali non vedo possibile un veramente sano progresso edilizio». Poi, nel '38, l'ampliamento della sede Montecatini, con i due palazzi in largo Donegani che, anche per la loro mole, rappresentano un modello per la futura architettura tecnica. Alla fine del '60 ecco il grattacielo Pirelli, il primo al mondo per la pianta lenticolare, ben lontana dalle configurazioni anonime e ripetitive tipiche delle torri americane, sorretta da quattro piloni e primo in Europa in altezza tra quelli costruiti in cemento armato: 127 metri. Diciannove più del Duomo e qui sorge spontaneo il riferimento, assurdo e ridicolo, al fatto che dopo cinquant'anni a Renzo Piano si nega a Torino di costruire la nuova sede dell’Istituto San Paolo più alta della Mole Antonelliana. Nel '64 ecco la Chiesa di San Francesco, in via Paolo Giovio, caratterizzata dalla bucatura della facciata con le sagome esagonali che permettono di vedere il cielo. Qui Ponti si lasciò andare ad un altro dei suoi famosi aforismi: «Meravigliosa ventura quella degli architetti, concessa da Dio: costruire la sua casa e costruire per gli uomini, nella Sua ispirazione, la loro casa, il tempio della famiglia».

L'avventura di Ponti, che si concluse nel '79, rappresenta ancora oggi uno straordinario esempio di versatilità ma soprattutto la testimonianza di come l'architettura, se ben pensata ed eseguita, rende attraente e interessante la città, in ogni momento della sua vita.

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