L’aristocratico che già a scuola segnava i cattivi sulla lavagna

Da primo della classe a direttore d’orchestra dell’inchiesta più famosa d’Italia. Senza mai scendere dal podio del suo «io»

Stefano Zurlo

da Milano

C’era da aspettarselo. Guido Rossi ha chiamato Francesco Saverio Borrelli al capezzale del calcio malato. Certe parentele, anche se non risultano all’anagrafe, sono salde. Saldissime. E al momento buono diventano operative. I due hanno temperamenti simili: freddo, lucido Rossi, ma quando si accomodava - ora sarebbe conflitto di interessi - in tribuna al Meazza il folletto che è in lui si scatenava e l’aplomb andava in pezzi; altrettanto cartesiano Borrelli, persino luciferino secondo i suoi molti detrattori, ma quando si siede davanti al pianoforte le mani trasmettono le sensazioni in chiaroscuro di un animo romantico. Complementare al cervello da illuminista e alla personalità aristocratica.
Difficile comporre la sintesi. Di sicuro Borrelli è un solitario che guarda al mondo dalla vetta immacolata del suo ego e riflette sui guasti dell’umanità, che come magistrato ha studiato per quasi mezzo secolo, con una punta di compassione mista a disprezzo. Una volta, per una qualche combinazione chimica e per le condizioni storiche del Paese, l’intelligenza viva e le formidabili capacità organizzative hanno vinto sullo spirito orgoglioso e ingovernabile. Sbocciò così la stagione di Mani pulite. La stagione dei proclami. Degli avvisi di garanzia e dei preavvisi a mezzo intervista. Delle parole pesate una a una sulla sua personalissima bilancia e, talvolta, caricate con la perfidia necessaria per trasformarle in frecce avvelenate. Il solitario Borrelli impugnò la bacchetta del direttore d’orchestra e senza mai scendere dal podio del suo io si rivelò un fine stratega, un generale pronto a ricevere le standing ovation dei suoi molti fan e i fischi rabbiosi dei molti nemici. Il Borrelli nato a Napoli 76 anni fa, cresciuto a Firenze e radicato a Milano, è rimasto in prima linea come procuratore e poi come procuratore generale per dieci anni esatti, dall’arresto di Mario Chiesa il 17 febbraio 1992, al triplice resistere e al pensionamento sulla soglia invalicabile del settantaduesimo compleanno nell’aprile 2002.
Sembrava che quel resistere dovesse essere il suo testamento e infatti abbandonate la bacchetta e la ramazza Borrelli si era inabissato come un sottomarino. Lo si poteva incrociare in sella alla sua bicicletta dalla parti di Città Studi, alla prima della Scala o sulle montagne della Val d’Aosta. Pareva di sfogliare l’album inevitabilmente malinconico del declino e certe sue foto facevano impressione se paragonate con quelle scattate solo pochi anni prima: una selva di microfoni davanti alla bocca, i telegrammi scagliati come missili da Porta Vittoria verso i palazzi del potere, il volto severo alleggerito da un pizzico - e qualche volta anche più - di vanità. Borrelli, uomo tutto d’un pezzo, lontano dalle mezze misure e dalla misura della diplomazia e della politica, era rimpianto da molti, ma come si rimpiange chi non c’è più e non potrà tornare.
Invece dalla teca della vita domestica l’ha dissigillato Guido Rossi. Quel Rossi che nel giugno 1993 salì i gradini del palazzo di giustizia di Milano come numero uno della Montedison. Quel Rossi che nel ’95 distillò una critica pacata ma acuminata di Mani pulite: «Il principale errore è stato quello di fare giustizia penale aggregata, il processo al sistema, invece che un giudizio penale molto preciso». Ovvero, la rivoluzione, anche se nel segno della legalità. Ma Rossi, evidentemente, ha lo stesso Dna e appartiene alla stessa generazione. Certe affinità riemergono: i due sono convinti di rappresentare il meglio del Paese e di un Paese troppe volte mediocre. Probabilmente, se lo ripetono quando incrociano il loro amico più fidato: lo specchio. E Borrelli sorride sarcastico quando l’etichettano come uomo di sinistra, perché la sua geografia politica, come pure quella del suo committente, fatica a sovrapporsi a quella disegnata dal Parlamento.
In ogni caso si ricomincia: mani o piedi fa poca differenza quando c’è un sistema di potere e di relazioni che va in pezzi. Borrelli è uno sportivo ma sa poco o nulla di calcio: il figlio Andrea, magistrato come il padre e il nonno Manlio, dice che è andato allo stadio una volta sola, per dovere istituzionale, per Italia ’90. Imparerà. E presto sapremo se le prossime settimane saranno un replay di Mani pulite e se Borrelli spargerà il sale sulla città calcistica del male, così come ci aveva abituati ai tempi dell’anatema contro Tangentopoli. Certo, i tempi sono cambiati e il suo allievo Francesco Greco, anima dell’indagine su Fiorani e i furbetti del quartierino oltreché grande estimatore di Guido Rossi, oggi usa le manette con una parsimonia che allora sarebbe sembrata inaccettabile. E poi il ruolo, dentro il perimetro della giustizia sportiva, è diverso. Ma Borrelli non ama la parte della pianta ornamentale e soprattutto non gradisce ricevere ordini.

A otto anni, era solo un bambino, andò sui giornali per la prima volta: la sua maestra disse alla Nazione che era lui a segnare sulla lavagna i buoni e i cattivi. Se Guido Rossi l’ha rubato alla naftalina è perché quella è stata ed è la vocazione di una vita.

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