L’economia in crisi parla il greco antico e costa una dracma

Se i tecnocrati d’Europa, oltre alle alchimie finanziarie e alla roulette dello spread, avessero a disposizione una macchina del tempo, il tormentone della Grecia che traballa sull’abisso si potrebbe spegnere oggi stesso. Tirare la leva giusta e far risorgere dalle ceneri della storia la dracma: ecco la mossa geniale che metterebbe tutti d’accordo, dalla destra alla sinistra. Non ci riferiamo alla dracma moderna, istituita nel 1832, all’alba dell’indipendenza greca dal dominio ottomano. Quella era una valuta già fragile di suo. Parliamo della dracma classica, la moneta regina, un gioiellino della numismatica e dell’economia antiche. Stiamo lavorando d’immaginazione, naturalmente, ma in queste ore cupe fantasticare un po’ ci consola.
Ai giorni di Socrate e di Platone si diceva «portar civette ad Atene», significando un’azione di gran lusso, superflua. Nella città del Partenone, allora fiorente, i notturni pennuti erano di casa, nelle tasche degli ateniesi. Spiccavano sul conio della moneta che il mondo invidiava, la dracma, un dischetto di quattro grammi d’argento, pilastro di un’economia che si reggeva sui commerci, sulle manifatture delle ceramiche e dei metalli, sull’olio e sul grano, sulle pezze di lana e di lino dei telai instancabili, oltre che sul prestigio di una cultura inestimabile. Anche sull’euro greco di oggi c’è la glaux, la civetta dai grandi occhi spalancati: ma è uno sbiadito riflesso del fasto antico, e non si sa per quanto regga. Sul recto della dracma classica era effigiato il fiero profilo della dea patrona: Atena, con l’elmo guerriero e lo sguardo acuto, il sorriso tranquillo di chi sa di essere una garanzia. Il nome stesso della moneta tranquillizzava. La sua radice era nel verbo dràssomai, «stringo nel pugno». In origine, prima del conio tondeggiante, la dracma era una concreta manata di sei «oboli», verghette di metallo che servivano a comperare le merci. Gli storici ne stabiliscono il potere d’acquisto teorico, pari a una quarantina di dollari odierni. Se si avvalorasse questo cambio, la Grecia, da cenerentola del continente, ne diventerebbe l’eldorado.
Le fonti antiche ci danno informazioni più pratiche. Senofonte, un militare di carriera che faceva il fattore e s’intendeva d’economia, scrive che la dracma era la paga giornaliera di un soldato scelto, o di un operaio specializzato. Un capofamiglia ci viveva discretamente. Tre oboli (mezza dracma) era la diaria di un funzionario pubblico. Non ci scialava, ma un cittadino nominato giudice popolare in un tribunale di quartiere (a quel tempo gli incarichi erano assegnati a sorte) sapeva di poter tirare avanti per il periodo della sua funzione: senza arricchirsi, ma anche senza andare in rosso. L’euro di oggi non vale neppure una corsa d’autobus. La dracma navigava sicura in acque internazionali. Era la chiave dei mercati. Gli archeologi ne scoprono esemplari in Egitto, Spagna, Italia del sud (la «Magna Graecia» del tempo) e perfino in Persia, nemica storica dell’Ellade, ma attiva partner quando si trattava di affari e di scambi. Gli Arabi, maestri di traffici, chiamavano dhiram la loro moneta, derivandola dal didracma, la doppia dracma. Ancora oggi, il dhiram è la divisa ufficiale del Marocco e degli Emirati Arabi Uniti. E le sillabe suonano nel diram dell’Armenia. Una longevità linguistica che documenta la fiducia nella solida valuta ateniese.
Per la Grecia, il passato è un patrimonio. Purtroppo solo virtuale, ideale. Non si spaccia agli sportelli delle banche o nelle sedute fibrillanti di Borsa. Però ci suggerisce una modesta proposta per alleviare i deficit. Basterebbe far pagare agli utenti, a titolo di diritto d’autore, un centesimo di euro (o di dracma, se la Grecia sarà abbandonata a se stessa) ogni volta che useranno, a proposito o a sproposito, parole coniate dai Greci d’allora. Non parliamo di vocaboli di cui tutti conoscono la genealogia ellenica: democrazia (il potere del popolo), economia (le regole della casa), politica (il reggimento di una polis, una città, o per estensione di uno Stato). Quelle le diamo per scontate, le regaliamo, sono ormai un’eredità umana, pubblica e gratuita. No, ci riferiamo a quei termini che sembrano inediti e che hanno scritto il calvario della Grecia di oggi.
«Spread», tanto per cominciare. È il differenziale, lo scarto tra valori finanziari. Si camuffa da anglosassone, ma è una parola che ci riporta ai contadini arcaici di Omero e di Esiodo. Nel loro linguaggio, speiro significava «io semino», un atto maestoso, che sa di terra, di sudore sui solchi, di fiducia nell’arrischiare i chicchi preziosi in vista del raccolto. Il ventaglio di semi gettati con sapienza sulle zolle era lo «spread» antico, l’arco del grano che scintillava nell’aria. Ieri una festa di lavoro, di speranza, di vita, oggi una truce minaccia di miseria. Prendiamo «default». È il crollo, il fallimento, la bancarotta, lo spettro che ci tiene sulla corda. Ma l’hanno inventato i greci, che chiamavano sphàllein (ecco la sinistra radice di de-fault) l’atterrare un avversario con lo sgambetto, il farlo rovinare a terra. E concludiamo con le sillabe più temute: «crisi».

È l’antica krisis, l’atto drammatico del krìnein, il «decidere», la scelta fatale, il colpo di spada che dirime una situazione allo stremo. È un’utopia, lo sappiamo. Ma sarebbe bello ricambiare la Grecia di tanti tesori d’intelligenza e di spirito.

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