L’esercito spara sulla folla: 10 morti a Bangkok

È la resa dei conti e si sta trasformando in un bagno di sangue. Il sangue delle camicie rosse, del popolo delle campagne. Il sangue di quel popolo umile, ma arrabbiato arroccato da due mesi nel cuore di Bangkok. Il popolo dei mangiatori di riso decisi a saldare i conti con il ministro Abhisit Vejjajiva, con le élite di magistrati e generali, con quei poteri forti che da quattro anni sbarrano il passo al loro grande capo, al miliardario ed ex primo ministro Thaksin Shinawatra accusato di corruzione e costretto all’esilio da un golpe armato nel 2006. Ieri quella battaglia - combattuta tra le barricate di copertoni e rottami fumanti erette intorno al Suan Lum Night Bazaar – ha reclamato dieci vite. E il peggio deve forse arrivare.
I due mesi di proteste che hanno paralizzato Bangkok, allontanato i turisti, trascinato la Thailandia al tracollo economico, minacciano ora di arrivare all’epilogo fatale. Più dei dieci morti, dei 125 feriti tra cui un giornalista canadese e due thailandesi, più e delle migliaia di pallottole volate in una delle aree più affollate della capitale pesa il proiettile che giovedì sera ha colpito al cranio il generale Khattiya Sawisdipol. «Seh Daeng» come lo chiamano i suoi fedeli è in agonia, ma la sua eliminazione non ha sortito l’effetto desiderato. Il militare rinnegato, il generale che aveva rotto i ponti con i suoi compagni d’accademia giurando fedeltà a Thaksin non era solo l’indiscusso capo militare della rivolta. Era anche il sostenitore della resistenza a oltranza, l’irriducibile ostile a ogni compromesso, l’organizzatore delle bande protagoniste degli attacchi a colpi di lanciagranate ai palazzi del potere. Togliendolo di torno qualcuno pensava di spegnere l’interruttore della protesta e convincere i suoi fedelissimi ad abbandonare le barricate. Per ora non è così. Le camicie rosse sono ancora lì nel cuore di Bangkok e malgrado l’esercito le abbia ingabbiate in un perimetro guardato da migliaia di soldati nessuno abbandona la partita. Per i diecimila oppositori tra cui centinaia di donne e bambini, quella battaglia rappresenta il futuro. Thaksin, per loro è ancora l’uomo della speranza, è il premier che ha distribuito alle campagne i denari ingoiati per decenni da generali e magistrati, il premier che ha regalato ai contadini l’assistenza sanitaria e incoraggiato lo sviluppo delle zone rurali. Proprio quella rottura con i poteri forti della capitale gli sarebbe costata, secondo i sostenitori, l’accusa di corruzione rivoltagli da una magistratura complice dei generali e il colpo di Stato conclusosi con l’esilio.
L’oltraggio peggiore per le camicie rosse è però l’ordinanza dei magistrati della corte suprema che nel dicembre 2008 dichiara illegali per brogli e corruzione le elezioni con cui la maggioranza dei thailandesi ha confermato il sostegno al partito del premier in esilio. Quel decreto seguito dalla destituzione del primo ministro Somchai Wongsawat e alla sua sostituzione con Abhisit Vejjajiva è il vero antefatto dell’attuale rivolta. Per il popolo delle campagne quel premier educato a Oxford sostenuto dalla casta di magistrati e generali è il simbolo dei poteri forti che da decenni ignorano le loro richieste e i loro voti. Per questo non vogliono compromessi. Per questo chiedono o nuove elezioni o il riconoscimento dei risultati elettorali del 2007 e la destituzione di Abhisit. Anche per questo i generali esitano. Potrebbero assaltare il quadrato delle camicie rosse, spazzarle via del centro di Bangkok, ma dopo dovrebbero far i conti con i cadaveri rimasti nelle strade. Dietro quei cadaveri sopravviverebbe l’odio, il risentimento di uno schieramento ancora capace di conquistare la maggioranza dei voti e di controllare gran parte delle regioni settentrionali e orientali della Thailandia. Riconquistando con la forza Bangkok le élite e il loro braccio armato scaverebbero un fossato tra sé e il resto del paese minacciando tra l’altro d’incrinare l’unità dello stesso esercito. Da ieri a Bangkok circola la storia di un poliziotto sorpreso a sparare a un militare intento a prestar soccorso a una camicia rossa ferita.

In quell’immagine forse inventata, forse esagerata c’è lo spettro che angustia i generali. Lo spettro di un esercito fuori controllo. Lo spettro di un esercito anch’esso diviso tra figli delle campagne e figli delle élite di potere.

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