L’EVOLUZIONE DELLA LIBERTÀ

«Pubblicato in proprio». È questo il significato di una parola magica, divenuta sinonimo di eroismo e ormai quasi ammantata di leggenda: samizdat. Il samizdat fu il marchio di fabbrica (per quanto pressoché artigianale) della letteratura libera sotto il tallone sovietico. Parliamo di gente come Bulgakov, Pasternak, Babel’, Grossman, Solzenicyn, Erofeev, Brodskij, Sorokin... Erano clandestini sulla nave del comunismo che non si piegavano al ruolo di mozzi e che, anzi, volevano invertire la rotta. A muoverli non era certo la nostalgia degli zar ma, al contrario, la consapevolezza che il regime dei soviet fosse una forma degenere di zarismo, ancor più assolutista di quello finito con l’esecuzione di Nicola II, il 17 luglio del 1918.
Se cerchiamo la parola samizdat nel programma del Salone del libro di Torino, dove, per inciso, il Paese ospite è proprio la Russia, il sito apposito fa scena muta. In compenso, se cerchiamo «Tolstoj» troviamo un riferimento, quello alla conferenza «L’ultimo Tolstoj», tenutasi due giorni fa. Ma che c’entra l’autore di Guerra e pace e Anna Karenina, morto otto anni prima di Nicola II, con i samizdat dei suoi indomiti nipotini d’elezione? C’entra, perché i primi samizdat furono i suoi, anche se non realizzati in prima persona, bensì contando sulla devozione di ammiratori e adepti.
Tolstoj, infatti, nei primi anni del secolo scorso era tanto guardato con sospetto in patria da chi governava, quanto venerato all’estero. Il patriarca di Jasnaja Poljana risultava troppo ingombrante per il potere e il tolstojsmo assumeva i contorni di una religione, con fedeli molto più numerosi delle poche decine di «pellegrini» i quali, da ogni parte del Paese, si recavano a omaggiarlo nella sua tenuta. Così i suoi saggi inneggianti al pacifismo e alla dimensione quasi mistica e «cristica» del popolo, cioè dei contadini, i suoi amatissimi muziki, non apparvero a Mosca e a Pietroburgo, ma a Londra, a Parigi, a Roma. «Le posizioni radicali di Tolstoj - dice Roberto Coaloa - imbarazzavano anche i socialisti italiani che vi vedevano una valenza antirivoluzionaria, anzi diciamo pure oscurantista. Alcuni di loro arrivarono ad augurarsi la sua morte». Coaloa, studioso del Novecento con una particolare predilezione per il principe di tutte le lettere, presenterà e commenterà, all’imminente Festival «èStoria» di Gorizia (20-22 maggio) un testo di Tolstoj per la gran parte inedito in Italia (uscì in Francia, stante la censura russa) risalente alla fine del 1905, e sul quale aleggia il concretissimo fantasma della guerra russo-giapponese. Insomma, ecco un altro samizdat del vecchio leone. Per la felicità dei suoi ammiratori e lo scorno dei guerrafondai di ieri e di oggi.
Del resto, quella di far filtrare fuori dai patri confini le opere avverse al regime è una specialità russa. Basti pensare a Vita e destino di Vassilij Grossman e al caso più eclatante di tutti, L’arcipelago Gulag di Solzenicyn. Erano trascorsi quasi sessant’anni dalla scomparsa di Tolstoj quando l’inchiesta romanzata sugli orrori del comunismo fu terminata. Si era sul finire del 1968, e anche la tecnologia poteva dare una mano agli esuli. Dunque, stop ai manoscritti ricopiati in gran segreto e via libera ai microfilm. Fu così che nella geografia dell’Occidente libero entrò un Arcipelago allora pressoché ignoto. E fu così che, due anni dopo, il Nobel conferito a Solzenicyn diede una robusta spallata all’impero sovietico (e una riscaldatina alla Guerra fredda...).
La scrittrice russa Ljudmila Ulitskaja ha ricordato, nella prolusione che ha inaugurato il Salone torinese, quell’età dell’oro in cui la consapevolezza dei rischi che si correvano non mitigava l’entusiasmo per la scoperta e la diffusione della cultura che si affrancava dalle catene. «Gli anni della mia giovinezza e della mia formazione come persona e lettore - ha detto - coincisero con il samizdat. Posso con buona approssimazione elencare i libri fabbricati dai miei amici e contemporanei che costituirono le mie letture negli anni 60, 70 e 80. Erano libri dattiloscritti su carta finissima, persino su carta da sigarette, riprodotti in microfilm, e spesso rimpiccioliti, o addirittura ricopiati a mano». Tutto il meglio, infatti, era proibito: Anna Achmatova, Osip Mandel’stam, Boris Pasternak. E poi Brodskij, Solzenicyn, appunto, e persino i mistici Gurdziev e Uspenskij... «Nella Russia sovietica - ha poi spiegato - accanto al samizdat esisteva il tamizdat. Si trattava di libri in lingua russa stampati da case editrici straniere».
Ora, a Mosca e Pietroburgo, le cose sono cambiate, tanto che i giovani autori russi, molti dei quali si dedicano a generi tipicamente d’importazione, come il pulp, l’horror e il thriller, lamentano di essere ignorati, laddove i loro predecessori erano pesantemente osteggiati. Il fatto è che se i mezzi per la diffusione del sapere e dell’arte migliorano e diventano sempre più facili da usare, non si può dire la stessa cosa per i diritti umani. Al posto dell’Urss, per esempio, c’è l’Iran, che ha condannato due registi cinematografici, Jafar Panahi e Mohammad Rasulof, a sei anni di carcere e a vent’anni lontano dalla macchina da presa.

I due hanno prontamente aggirato l’ostacolo inviando al festival di Cannes i loro film, In Film Nist (Questo non è un film) e Be Omid e Didar (Arrivederci), con una chiavetta USB e un dischetto DVD. Siamo sicuri che anche il tradizionalista Tolstoj approverebbe.

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