L’ex senatore arrestato: «La mia candidatura venne decisa da Fini»

RomaIl nome di Gianfranco Fini risuona nell’aula Occorsio del tribunale di Roma per bocca dell’ex senatore del Pdl Nicola Di Girolamo: «La mia candidatura fu deliberata da An e a decidere fu Gianfranco Fini». Siamo al processo sul maxiriciclaggio da due miliardi di euro che ha coinvolto gli ex vertici di Fastweb e Telecom Italia Sparkle ideata, secondo la Procura, da Gennaro Mokbel. Di Girolamo, arrestato con l’accusa di essere il referente parlamentare del gruppo criminale, era già finito nel mirino della magistratura per i presunti brogli elettorali con la complicità della ’ndrangheta che portarono alla sua elezione nel collegio estero Europa, ma la richiesta di arresti domiciliari all’epoca venne fermata dal no della giunta per le Autorizzazioni a procedere di Palazzo Madama. Costretto a dimettersi quando scoppiò lo scandalo Fastweb, poiché per i magistrati era lui il consulente legale e finanziario dell’organizzazione capeggiata da Mokbel, è finito in carcere dopo aver perso l’immunità parlamentare.
Ora, dopo aver concordato un patteggiamento a 5 anni di reclusione subordinato alla restituzione di quasi 5 milioni di euro, l’ex senatore svela in aula i retroscena della sua candidatura e tira in ballo l’attuale presidente della Camera. Fu lui - dice - a dare il via libera. E questo nonostante dietro la candidatura di Di Girolamo, come è emerso dalle indagini, ci fosse Mokbel, ex militante della destra estremista, amico di Antonio D’Inzillo, già esponente dei Nar. Fu Stefano Andrini, anche lui ex estremista di destra, costretto a dimettersi dall’Ama quando la notizia della frode colossale divenne di dominio pubblico, a fare da tramite tra Di Girolamo e Marco Zacchera, uno dei tre coordinatori del Pdl che doveva occuparsi delle candidature degli italiani all’estero.
A questo punto viene da chiedersi come vengano scelti questi candidati, con quali criteri. E soprattutto perché Fini avrebbe dato il via libera alla candidatura di Di Girolamo nonostante Barbara Contini, anche lei allora nel gruppo del Pdl per la valutazione dei nomi da inserire nelle liste, avesse espresso le sue perplessità proprio sul nome dell’ex senatore perché «non era conosciuto nelle comunità europee all’estero». La Contini ha raccontato al pm Giancarlo Capaldo di aver parlato al collega Zacchera dei suoi dubbi sul nome da proporre. Ma il deputato la rassicurò, garantendole che a prendere la decisione era stato il presidente Fini in persona. Versione ora ribadita davanti ai giudici da Di Girolamo, sollecitato dalle domande dell’avvocato Giosuè Naso, difensore di due degli imputati: «La scelta fu fatta da An. Zacchera mi disse che era stato dato il placet per la mia candidatura da parte di Fini, anche se io non l’ho mai incontrato personalmente. Non vi era facoltà da parte di nessuno, in quel momento storico, di poter incontrare i vertici del partito».
Di Girolamo, in effetti, ce la fa. Ma poi i magistrati ci mettono il naso e scoprono che l’ex senatore aveva ingannato gli elettori mentendo sulla sua residenza all’estero. Eppure, senza aver mai risieduto in Belgio o svolto lì alcuna attività, prende 24.500 voti. Grazie all’aiuto della ’ndrangheta, ritiene la Procura. Il processo potrebbe riservare altre sorprese per chi ha caldeggiato la candidatura di Di Girolamo. In carcere Mokbel non ha mai spiegato ai pm il significato di alcune intercettazioni telefoniche in cui sostiene di aver «pagato una “piotta” solo per ottenere il sì di An alla candidatura di Di Girolamo».

In altre conversazioni l’imprenditore ripete di aver pagato per lo stesso motivo un milione di euro. Millanteria, forse, o probabilmente con quella cifra si riferiva ai costi della campagna elettorale. Presto dovrà rendere conto in aula di quelle parole. E a qualcuno potrebbe non piacere quello che dirà.

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