Mettiamo da parte per un momento linteresse per la cosiddetta politica «politicienne» e cerchiamo di guardare alla realtà sociale, economica e culturale del Paese. Abbiamo almeno quattro grandi problemi: la questione meridionale, vecchia di un secolo e mezzo; la questione salariale con anche quella nuova, attualissima dellimpoverimento, quasi una proletarizzazione, del ceto medio, che nel Novecento, fino a trentanni fa, è stato lasse su cui si è retto lequilibrio sociale e politico italiano; la totale dipendenza energetica dallestero del nostro sistema economico; lo scadimento del sistema scolastico e di formazione, che ci rende deboli nel confronto con i Paesi industrializzati.
Sono temi fondamentali, di cui si parla, è vero, in campagna elettorale, ma in termini vaghi e retorici, senza dire come li si affronterà in concreto. Prevale la demagogia, cioè la propaganda lusingatrice.
Dei quattro temi, quello più dimenticato è la questione meridionale, di cui oggi qui vogliamo occuparci.
Furono due politici toscani, Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti a occuparsi per primi con un loro rapporto (1876) della questione meridionale. Condussero uninchiesta in Sicilia che denunciò le condizioni di sottosviluppo di metà del regno in taluni casi addirittura di arretratezza drammatica. Seguirono studi come quelli di Giustino Fortunato, Stefano Jacini, poi, man mano nel tempo, le ricerche di Salvemini, Nitti, Dorso fino alle più recenti di Rossi Doria, Saraceno, Compagna, Fiora, Giovannino Russo, che potremmo definire gli ultimi meridionalisti.
Il politico moderno che dedicò maggiore attenzione al Mezzogiorno fu il trentino De Gasperi, che nei primi anni del secondo dopoguerra volle verificare di persona le condizioni del Sud, come aveva fatto il bresciano Zanardelli nel 1902 recandosi a Potenza, prendendo coscienza della imprescindibilità della questione meridionale. Ne nacque la Cassa del Mezzogiorno, che segnò la politica meridionalista fino agli anni Settanta-Ottanta. Furono anni in cui furono create infrastrutture; ne vennero insediamenti industriali, taluni effimeri, purtroppo, ma mancò quello che avrebbe potuto essere il motore vero della crescita del Sud: la formazione di una classe imprenditoriale locale endogena. Sorse, questa sì, una classe politica ragguardevole che alle speranze meridionali diede stimoli ma anche illusioni: Moro, Amendola, Mancini, La Malfa, Macaluso, De Mita, Colombo per citare alcuni nomi, allombra dei quali però sincardinò una dirigenza spesso mediocre, assetata di potere, non di rado con gli stessi difetti delle baronie borboniche.
Il risultato complessivo è stato deludente. Ancora oggi il sottosviluppo meridionale è una realtà che umilia il Paese, anche se ci sono zone del Sud che, a pelle di leopardo, una crescita lhanno avuta. Il divario tra Sud e Nord è persistente e grave. È un divario economico e anche civile, come ha rilevato recentemente il capo dello Stato, che il Mezzogiorno lo conosce perché vi è nato e dal Quirinale ora guarda alla sua Napoli con angoscia.
Certo, oggi cè da guardare in modo diverso dal passato alla questione meridionale, la riflessione sulla condizione del Paese va aggiornata. Non serve un meridionalismo querulo, piagnone, ma una visione moderna dei problemi, con proposte di economisti coraggiosi e innovatori, sostenuti da politici intrepidi e avveniristi. Una crescita economica sociale sarebbe il miglior rimedio, il più efficace, per i mali secolari di regioni disastrate dalla mafia, dalla ndrangheta, da fradiciume e infezioni che sono il prodotto di secoli di vassallaggio. È la maturazione di forze endogene che va stimolata innanzitutto, come insisteva Francesco Compagna, tenuta lontana la politica elemosiniera, come fu in parte quella della Cassa del Mezzogiorno.
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