L’INTERVISTA 4 LO STORICO RUSSO

Se gli parli di «venti di Guerra Fredda» dopo la scoperta delle presunte spie russe infiltrate negli Stati Uniti, Arkadi Vaksberg quasi si mette a ridere: «Non scherziamo, non cambierà nulla nei rapporti di riavvicinamento tra Mosca e Washington; gli 007 russi all'estero sono dei dilettanti rispetto a quelli sovietici». Originario di Novossibirsk, scrittore, giornalista e storico, Vaksberg, 76 anni, ha visto coi suoi occhi, sui documenti registrati negli inespugnabili archivi di Stato, quello di cui erano capaci gli 007 di Lenin e poi di Stalin. Tra i suoi 42 libri, l'ultimo tradotto in Italia, «I veleni del Cremlino. Gli omicidi politici in Russia da Lenin a Putin» (Guerini e Associati, 2007), racconta il laboratorio segreto di morte che l'intelligence sovietica utilizzava per neutralizzare gli avversari politici e i dissidenti dentro e fuori confine: sostanze letali, torture, trappole e minacce. Tutto senza lasciare traccia.
Che idea si è fatto dell'ultimo affaire spie che vede la Russia protagonista nel ruolo di cattivo?
«È l'ennesimo capitolo di una storia senza fine. Mi viene in mente una celebre frase di Karl Marx: “La storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa”».
Trova qualcosa di stravagante in questa vicenda?
«Il dilettantismo di questi presunti agenti segreti. In realtà si tratta di un fenomeno che colpisce tutti i servizi segreti russi all'estero».
Eppure la loro fama è di agenti preparati, ancora addestrati secondo i severi metodi sovietici.
«Proprio qui è il problema: gli 007 russi e la stessa classe dirigente, il premier Putin in testa, vogliono emulare i “fasti” del Kgb di Stalin, ma non possiedono la stessa preparazione. Gli 007 sovietici erano colti, intelligenti, sapevano le lingue ed erano devoti alla patria».
E ora?
«Mi sembra che oggi le spie russe siano più dilettanti che professionisti. Si tratta sì di gente poco competente che non ha una preparazione ad ampio spettro come nel passato. Prima la carriera nel Kgb era un percorso che conferiva prestigio e lustro sociale. Oggi il fine sono solo i soldi».
Secondo lei come si spiega questo cambiamento?
«Difficile da dire. Sia Gorbaciov che Eltsin avevano trascurato i servizi segreti all'estero. Con l'avvento di Putin, nel 2000, abbiamo assistito alla “rinascita” dell'Fsb (l'erede del Kgb, ndr). Il premier russo, che ha una formazione da Kgb, persegue l'idea della Grande Russia. L'aumento delle spie fuori confine è strumentale a questo obiettivo: tanti più agenti, tanto più potere. Ma l'ottusità sta nel puntare sulla quantità e non sulla qualità».
Cosa differenzia i servizi segreti di oggi da quelli dell'Urss?
«In realtà l'intelligence russa cerca gli stessi segreti di quella sovietica: nel campo nucleare, delle tecnologie, dell'economia. Cercano di prevenire i piani del Pentagono e di infiltrarsi nella Cia. Nei soli Stati Uniti gli esperti parlano di circa 400 agenti russi. Si insinuano nella società occidentale, nelle sue banche, università, nei centri di potere politico. Il problema è che non possono usare più i metodi dell'era sovietica, perché Mosca ha più bisogno dell'Occidente. A differenza di allora, oggi il Cremlino fa promesse di amicizia e non di guerra a Europa e Usa».
Pensa, quindi, che Mosca venda illusioni alla comunità internazionale?
«Dico solo che la politica russa non va analizzata dalle parole del suo presidente e del suo premier, ma dalle loro azioni».


Quest'ultimo scandalo cambierà il corso del cosiddetto «reset» tra i due Paesi?
«Né Mosca, né Washington vogliono peggiorare i rapporti bilaterali. Lo indica il fatto che nessun diplomatico da entrambe le parti è stato richiamato in patria, né il ministro russo degli Esteri ha parlato con l'ambasciatore americano. Una farsa, appunto».

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