L’Irak oggi al voto, minacce ai sunniti che vogliono dire «sì» alla Costituzione

Secondo i sondaggi il 93% degli iracheni parteciperà al referendum e il 90% esprimerà parere favorevole. Gli Usa: «Un successo anche un’alta adesione»

Gian Micalessin

Voteranno e saranno in tanti. Anche perché restare a casa non conviene a nessuno. I primi a non tirarsi indietro saranno curdi e sciiti certi, grazie al sì, di approvare una costituzione federalista modellata sulle proprie aspirazioni. Ma non staranno a guardare neppure i sunniti. Per loro la speranza di cancellare quella bozza costituzionale considerata «iniqua» si basa sul «no» di almeno tre delle quattro province in cui sono maggioranza. E poco importa che il Partito islamico e un’altra delle loro formazioni politiche abbiano raggiunto un accordo con sciiti, curdi e americani concedendo un «sì» in cambio della promessa di successivi rimaneggiamenti. La marcia indietro dei due gruppi secessionisti aumenta la competitività nelle provincie sunnite e amplifica l’interesse per il voto.
Queste previsioni sono confermate dal sondaggio dell’Istituto nazionale iracheno. Secondo quei dati il 93% degli iracheni parteciperà oggi al referendum costituzionale e il 90% voterà sì. La partecipazione dovrebbe variare dall’83% della capitale al 99% di Kerbala, una delle città sante sciite nell’Irak centro-meridionale.
Ieri fino all’ultimo tutti hanno tirato acqua al proprio mulino. Nelle città del sud le autorità hanno diffuso a piè sospinto le raccomandazioni del Grande ayatollah Alì Sistani, la maggior autorità religiosa, che raccomanda di correre alle urne per votare «sì». A far il tifo per il «sì» contribuiscono anche i vicini di casa iraniani. «Gli iracheni prestino attenzione all’appello dell’ayatollah Sistani e vadano uniti alle urne», raccomanda da Teheran durante la preghiera del venerdì l’ayatollah Mohammad Emami Kashamni.
A Bagdad e nel Triangolo Sunnita impazza invece la lotta tra i sostenitori del «no» e i partigiani del «sì» convinti di poter negoziare un testo più accettabile dopo l’approvazione referendaria. E per il partito islamico e i suoi dirigenti - denunciati come miscredenti dalla guerriglia - non sono ore facili. Prima dell’alba una bomba a mano è esplosa davanti all’abitazione dello sceicco Muayad al-Azami, l’esponente religioso di punta del partito. La sera prima durante la preghiera era toccato a suo figlio venir minacciato. E ieri mattina un’altra bomba ha provocato gravi danni alla sede del partito a Bagdad, mentre un gruppo di militanti dava alle fiamme gli uffici di Falluja. Sempre ieri centinaia di dimostranti hanno attraversato il quartiere di Azamiyah - roccaforte sunnita di Bagdad - dirigendosi verso la moschea di Abu Hanifa, ritrovo dei militanti del Partito islamico, lanciando slogan contro il loro capo Mohsen Abdul-Hamid e chiamandolo traditore.
Inviti più pacifici al «no» sono stati diffusi nelle moschee durante la preghiera del venerdì. A Tikrit lo sceicco Rasheed Yousif al Khishman ha esortato i fedeli a votare contro «una costituzione scritta per mano degli stranieri infedeli». Analoghe le esortazioni nelle altre moschee del Triangolo sunnita. La stessa guerriglia potrebbe quindi non ostacolare il voto. Anche perché una vittoria dei sì accelererà il processo politico, mentre quella del no lo azzererà e condannerà il Paese all’anarchia.
Washington non è, però, di quest’idea. Per il portavoce della Casa Bianca Scott McClellan una massiccia partecipazione al voto equivarrà a una vittoria sugli insorti. Il presidente Bush, ribadisce invece la linea della fermezza. «Fino a quando sarò presidente - ha detto rivolgendosi ai soldati in Irak - non faremo mai marcia indietro, non ci arrenderemo mai, non accetteremo nulla di meno di una vittoria totale».
Con l’avvicinarsi dell’apertura delle urne montano però i dubbi sulla presenza di seggi sufficienti. Soprattutto nelle città più toccate dai combattimenti.

«In zone come Haditha, Hit, Rawa, Qaim, Ana, Baghdadi e nei villaggi atttorno non ci sono seggi e non sono neppure arrivate le schede elettorali, nessuno sa dove andare a votare», denuncia Mahmoud Salman al-Ani, definitosi portavoce di un’associazione per i diritti umani di Ramadi.
Hussein al-Hindawi, capo della Commissione elettorale irachena, replica sostenendo l’esistenza di almeno 77 seggi a Ramadi e 30 a Falluja. «Se non li trovate - suggerisce - chiamate la commissione».

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