L’italiano che ha scoperto l’infarto nascosto

I consigli: tenere i sintomi sotto controllo e continuare a prendere l’Aspirina

Monica Marcenaro

da Milano

Sembrano sani, ma in realtà non lo sono. Le loro coronarie, pur presentando delle piccole lesioni, non hanno destato finora preoccupazione. Una volta accertato che il danno è limitato, non ricevono cure, né altre attenzioni, né sono sottoposti a controlli successivi. Stiamo parlando di quel grandissimo numero di pazienti che, ricoverati in seguito a un episodio coronario acuto (infarto o angina instabile) e sottoposti ad angiografia, vengono dimessi perché l'occlusione viene considerata benigna, cioè inferiore al 50 per cento.
Ora uno studio condotto su quasi 11 mila pazienti da Raffaele Bugiardini, docente di cardiologia all'università di Bologna e presentato a Stoccolma in occasione del congresso della Società europea di cardiologia, dimostra che più dell'11 per cento dei casi dopo un anno è dovuto correre di nuovo in ospedale: chi per una nuova angiografia, chi per angioplastica, chi per infarto, chi per morte. E non si tratta di pochi casi: solo negli Stati Uniti ogni anno vengono ricoverati con una diagnosi di sindrome coronaria acuta due milioni di soggetti, ben 200 mila risultano sani, cioè dall'angiografia non emergono danni di una certa entità alle coronarie, peccato che ben in 20 mila a distanza di dodici mesi siano tornati in pronto soccorso e in 4 mila (2 per cento) per infarto o morte improvvisa. Più di 10 casi ogni giorno: «È una strage di innocenti che non vengono seguiti, neppure con dei farmaci - sottolinea l'accademico bolognese - perché sottovalutati fin dall'inizio. I loro vasi vengono considerati normali, ma non lo sono». Da qui la necessità di una grande campagna di educazione sanitaria che modifichi da una parte i protocolli clinici, l'approccio degli specialisti e la valutazione dell'esame agiografico. Dall'altra, che inviti i tanti pazienti, a cui è andata bene una volta, a non rilassarsi troppo.
Lo spunto per la ricerca Bugiardini l'ha preso da una sperimentazione clinica coordinata negli Stati Uniti e che ha coinvolto anche l'università di Bologna. Gli americani, con lo scopo di verificare l'efficacia di alcuni trattamenti farmacologici, hanno promosso l'arruolamento di ben 10.915 soggetti che avevano avuto un episodio coronario acuto in 365 centri sparsi in tutto il mondo. Forte dell'idea che la stenosi coronarica superiore del 50 per cento da sola non potesse spiegare tante morti improvvise, la scienziato italiano ha chiesto ai colleghi di mezzo mondo di conoscere il follow-up dopo dodici mesi dei pazienti arruolati nella sperimentazione. Da qui la conferma di quelli che all'epoca erano solo sospetti: l'11 per cento dei 910 soggetti, la cui diagnosi iniziale era di malattia non ostruttiva, la metà dei quali presentavano all'angiografia coronarie normali, era dovuto tornare in ospedale. Il 2 per cento per infarto o morte. Nel vecchio continente la situazione potrebbe essere anche peggiore: dai dati che lo scienziato italiano ha raccolto sul registro europeo sulla sindrome coronarica acuta emerge che il 2 per cento dei soggetti dopo un anno ha perso la battaglia con la vita. Perché? L'angiografia dovrebbe avere una valenza relativa: «Con questo esame si vede la placca che si è sviluppata nella parete interna del vaso sanguigno, ma non all'esterno e poi va considerato il quadro clinico del paziente nel suo insieme», spiega Bugiardini. Perché dopo una prima diagnosi favorevole, non bisogna far finta di nulla: «I pazienti, oltre a seguire uno stile corretto di vita, dovrebbero essere seguiti con dei farmaci, almeno un'aspirina. In Gran Bretagna, per esempio, dopo i 65 anni somministrano 5 milligrammi di statina a titolo preventivo», aggiunge l'accademico.

Perché i cardiologi continuano a considerare importanti e meritevoli di intervento solo le stenosi superiori al 50 per cento, quando è ormai dimostrato che molti infarti sono causati da piccole placche, cosiddette vulnerabili, perché ricche di colesterolo.
Il consiglio? «Dopo un episodio acuto, occorre far attenzione ai sintomi e pur in presenza di coronarie normali - conclude lo scienziato - forse è meglio curarsi».

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