L’oblio sulle simpatie naziste del compagno Cantimori

Allievo di Gentile e Volpe, nel «Dizionario di politica» del Pnf fece un’apologia delle leggi di Norimberga del ’35, nocciolo duro dell’antiebraismo

Soltanto pochi giorni fa, nella rubrica «Lettere» di uno dei maggiori quotidiani nazionali, un lettore faceva notare, tra lo stupito e lo scandalizzato, che nel catalogo delle biblioteche pubbliche del nostro Paese erano ancora conservati alcuni classici dell’antisemitismo della stagione fascista come le opere di Giovanni Preziosi e Telesio Interlandi. Notazione ingenua quanta altra mai, se si pensa che i depositi della nostra memoria editoriale rischiano addirittura di non reggere il peso della mole di volumi, opuscoli, riviste specializzate che, tra 1938 e 1943, si impegnarono attivamente a denunciare la minaccia del complotto giudaico e a suggerire i mezzi anche estremi e radicali necessari a reprimerlo.
Abbondante e prolifico fu infatti il vario antisemitismo italiano, composto da intellettuali senza qualità impegnati a rincorrere e in qualche caso a precorrere le direttive del regime, da giovani appartenenti ai Guf, infatuati dall’idea di poter accoppiare polemica antiborghese e razzismo per rigenerare la corrotta società «demo-pluto-giudaica», ma anche da molti di coloro che entreranno, di lì a poco, a far parte del pantheon della prima Repubblica. Uomini politici che arriveranno ai massimi vertici del governo del nostro Paese, alti magistrati, giornalisti di grido ancora oggi operanti, registi e romanzieri famosi, moltissimi docenti universitari a cui sarebbe stata affidata l’educazione intellettuale e morale delle future generazioni.
È un catalogo lungo, non certo piacevole da sfogliare, ma drammaticamente istruttivo. Dalla sua consultazione si apprende che Gabriele De Rosa, colui che sarebbe divenuto dopo il 1945 un famoso storico dell’area cattolica progressista si affaticava, alla vigilia del conflitto, per dimostrare la necessità di una «rivincita di Ario» sulle razze inferiori e confessava di essere incapace di «intendere la ragione dei piagnucolamenti, degli svenimenti dei borghesi dinervati in favore dei giudei», che non comprendevano l’urgenza di procedere alla definitiva «disebreicizzazione delle Nazioni ariane» da attuare tramite lo «sfrattamento radicale dai loro territori» degli individui di stirpe mosaica. Non gli era da meno, negli stessi anni, un altro intellettuale, anch’esso destinato a grande fortuna nel dopoguerra, che, nel 1940, pubblicava per il Dizionario di politica del Pnf, un articolo sul regime nazionalsocialista, nel quale si sosteneva che «da quando l’umanità ha una storia, è la razza ariana quella che ha compiuto le più grandi imprese», visto e considerato «che alla razza ariana-nordica si debbono le più grandi conquiste della civiltà, e la civiltà stessa», aggiungendo poi che «tutto quello che di grande e di bello c’è nel mondo è stato creato o ispirato dalla razza ariana».
Ma non a questo solo si limitavano i contributi di questo entusiasta analista del nuovo ordine totalitario. Sempre all’interno dell’opera promossa dal partito fascista, era frutto della sua penna la voce «Onore», dove era contenuta un’apologia abbastanza trasparente delle leggi di Norimberga del 1935, che costituivano il nocciolo duro dell’apparato repressivo antiebraico instaurato dal nazismo. E ancora in quella sede editoriale, sotto la sua firma, compariva l’annuncio che «l’idea di “rivoluzione” e di “progresso sociale” si staccava con il Fascismo e poi con il Nazionalsocialismo da quella di “sinistra” con la quale fino a quel momento aveva tanto spesso fatto tutt’uno».
L’autore di questi ultimi contributi era Delio Cantimori, allievo di Giovanni Gentile e di Gioacchino Volpe, che dopo la fine del conflitto sarebbe divenuto uno dei maestri indiscussi non soltanto della sinistra storiografica, ma dell’intero mondo degli studi storici italiani, passando da un fermo sostegno al fascismo, venato di forti simpatie nazionalsocialiste, alla militanza nel Pci, che s’interromperà solo nel 1956, dopo la repressione sovietica dell’insurrezione ungherese. Di questo personaggio e dell’inquieto itinerario politico e intellettuale che lo contraddistinse, ci offre un ritratto complessivo Gennaro Sasso nel volume, ora pubblicato dalle Edizioni della Scuola Normale di Pisa: Delio Cantimori. Filosofia e storiografia. Siamo di fronte ad un libro importante, con il quale Sasso, dopo i profili dedicati a Croce, Gentile, Chabod, colloca un altro tassello di una sua personalissima storia del nostro Novecento intellettuale. Una storia mai scolastica, sempre originale, sempre ricca di sollecitazioni e di stimoli, sempre, vorrei aggiungere, ideologicamente spregiudicata e mai obbediente alle ragioni di parte e di partito, che in questo caso analizza con grande raffinatezza i vasti campi d’interesse di Cantimori: dagli studi dedicati all’umanesimo e alla Riforma protestante, al movimento ereticale del XVI secolo, al pensiero politico contemporaneo (i teorici della «rivoluzione conservatrice», Ernst Jünger, Ugo Spirito) alle indagini sugli utopisti del Settecento, sui giacobini italiani, sul Risorgimento.
Desta tuttavia qualche sorpresa che la lucidità della ricostruzione di Sasso si appanni e a volte venga meno nell’analisi del pensiero politico di Cantimori, per il periodo che va dal 1928 al 1942, gli anni che giustamente Sasso definisce di «inquietudine e crisi», ma che per molti europei furono soprattutto anni di scelta, di decisioni estreme che l’emergenza della congiuntura storica imponeva. Non lo furono, invece, per Cantimori o almeno per il Cantimori che Sasso ha inteso restituirci. Il Cantimori di Sasso sceglie di non scegliere, non prende netta posizione, non fa corrispondere il suo pensiero all’azione, la sua meditazione all’azione pratica. Non pare accorgersi che le parole possano tramutarsi in pietre da taglio, in armi di sterminio di massa. Si limita a sedersi sul letto del fiume, per osservare le limacciose acque del Novecento che minacciano di travolgere singoli e generazioni, modi di vita, civiltà, addirittura intere etnie. Fascismo, Nazionalsocialismo e poi Stalinismo sembrano essere, per lui, solo esperienze intellettuali da classificare in contenitori sterili come fossili provenienti da un’altra era.
Se questo è il modo stabilito per restituire l’innocenza perduta ad uno dei maggiori intellettuali del nostro passato prossimo, diciamo subito che questa scelta ci sembra sbagliata e fuorviante. Se per non offuscare gli indubbi, grandi meriti scientifici di questo storico, si è disposti a censurare a posteriori la sua adesione, tutt’altro che disinteressata e contemplativa, ai tragici totalitarismi del secolo appena trascorso, occorre dire che questa decisione rischia di restituirci soltanto un Cantimori dimezzato, anche se magari beatificato e composto nella terra consacrata del politicamente corretto. Meglio sarebbe stato sforzarsi di mostrare anche il volto demoniaco di questo studioso e i suoi percorsi di tenebra, come si è fatto per altri grandi chierici del «secolo breve»: Martin Heidegger e Carl Schmitt.

Più utile poteva essere il ricordare che in quei decenni tempestosi l’analisi del moloch hitleriano aveva anche prodotto risultati profondamente diversi da quelli elaborati da Cantimori se, nel 1937, uno studioso cattolico come Mario Bendiscioli stigmatizzava il regime nazionalsocialista in termini di «neopaganesimo razzista» e lo definiva come il misero prodotto intellettuale di «teologi mancati, di filosofi politicanti, di avventurieri del pensiero», ai quali non era parso vero di cogliere l’occasione storicamente propizia per infettare le «menti esasperate dalla crisi dei tedeschi postbellici».

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