L’oro di Mosca: 50 milioni di dollari spediti dall’Urss e «nascosti» dal Pci

I dirigenti comunisti non hanno mai permesso di fare chiarezza sui finanziamenti esteri. E la magistratura ha archiviato le inchieste con motivazioni singolari

Per concludere gli appunti sui finanziamenti al Partito comunista, è necessario richiamare i denari sovietici che hanno sostenuto il partito italiano per oltre un terzo di secolo, cioè per l’intero periodo post-fascista della rinascita e dello sviluppo della democrazia italiana. Una tranquilla riflessione su quella vicenda aiuta a comprendere meglio la storia politica del nostro paese. Infatti c’è qualcosa di singolare nel fatto che tutti i partiti non comunisti siano crollati negli anni Novanta per «criminalità finanziaria», mentre il Partito comunista, che più aveva praticato un’altra parallela criminalità finanziaria (ricevendo denari dallo Stato sovietico, nemico ufficiale dello schieramento internazionale a cui l’Italia apparteneva), è passato indenne attraverso la bufera di tangentopoli. Si obietterà che il diverso trattamento delle parallele criminalità finanziarie dei partiti non è stato altro che il risultato dell’applicazione delle leggi (e delle amnistie) vigenti all’epoca. Tutto ciò è vero, ma occorre allora interrogarsi sulle ragioni della gravissima dissimmetria legislativa che ha prodotto trattamenti fortemente sbilanciati a favore del Pci.
Gli aiuti da Stalin
Spesso, nel dibattito pubblico degli ultimi vent’anni, i giustificazionisti postcomunisti hanno sostenuto che i finanziamenti sovietici erano in qualche maniera giustificati perché al tempo c’era la Guerra fredda con un mondo diviso in due parti. L’osservazione tralascia un piccolo ma decisivo particolare. Il fatto che nel mondo bipolare l’Italia da una parte si incontrava con gli alleati e gli amici mentre, dall’altra, si scontrava con i nemici; e che schierarsi con i sovietici significava per gli italiani niente altro che intelligenza con il nemico e tradimento delle libere scelte effettuate dalle istituzioni rappresentative.
«Adesso, per quanto riguarda l’aiuto finanziario, i compagni italiani chiedono 600.000 dollari. Il compagno Stalin dice che si possono dare anche subito e che il compagno Secchia li può portare lui stesso... Il compagno Secchia ringrazia, ma dice che bisogna discutere il metodo del trasporto... Il compagno Stalin osserva che si tratta di due sacchi del peso di 40-50 chili...». Questo storico colloquio del dicembre 1947 tra il dittatore sovietico e l’uomo forte del Pci Pietro Secchia ebbe come tema principale il finanziamento del partito italiano.
Le bandiere del «partito nuovo» e della «via italiana al socialismo» sventolate da Palmiro Togliatti non avrebbero però inciso sulle finanze del Pci dipendente, e non poco, dalla casa madre sovietica. L’oro di Mosca, secondo la definizione di Gianni Cervetti, non è mai venuto a mancare a Botteghe Oscure durante trentacinque anni dalla fine della guerra al 1980. Il legame finanziario, al tempo stesso segno ed effetto del profondo collegamento politico, ha sempre accomunato il Pci, grande partito nazionale, e l’Urss, potentissima centrale internazionale.
E i dollari per la Dc
A distanza di pochi mesi da quando Stalin discuteva del trasporto dei sacchi di dollari rossi da Mosca a Roma, gli altri dollari, quelli a stelle e strisce di Washington per la Democrazia Cristiana, viaggiavano lungo i più agevoli canali bancari... I due maggiori partiti italiani, dunque, sono stati sostenuti a lungo, e senza risparmi, da fonti finanziarie straniere provenienti non già da organizzazioni private o politiche bensì direttamente da Stati che operavano attraverso i servizi segreti.
È nel periodo di maggiore dipendenza finanziaria dall’estero, negli anni Quaranta e Cinquanta, quando erano in allestimento le costose macchine di partito, che la Dc e il Pci non vollero fare alcun passo per regolamentare il finanziamento ai partiti, preferendo contare sulle fonti estere illegali a cui si sarebbero ben presto aggiunte quelle italiane altrettanto illegali. Oggi si conosce abbastanza per ricostruire la storia della dipendenza dal denaro straniero che si intreccia con quello illecito domestico. Ma l’informazione di cui si dispone sui flussi esteri pubblici e privati con i relativi tempi, modi, dati e protagonisti è, per così dire, asimmetrica tra Washington e Mosca. Se infatti si è andati molto avanti sul lato americano grazie anche al lavoro di ricercatori e giornalisti indipendenti, non altrettanto è accaduto sul lato postcomunista ed ex-sovietico per mancanza di disponibilità delle fonti.
I silenzi del Pci

Gli archivi Usa hanno reso accessibili, grazie al Free of Information Act, molti documenti della storia postbellica, e diversi protagonisti della Cia come Victor Marchetti e William Colby hanno parlato. E, ancora più, ci si è potuto giovare del contributo decisivo del Congresso di Washington che ha svolto puntuali investigazioni sull’attività all’estero dei servizi segreti con la Commissione Church in Senato (1975) e il Rapporto Pike alla Camera dei Rappresentanti (1976).
Sul versante postcomunista, invece, tutto è stato più difficile. Non si può «districare una matassa storicamente così intricata» ha sostenuto Gianni Corbi dalle colonne amiche della Repubblica, «senza la piena, fattiva e leale collaborazione dei vecchi e nuovi dirigenti del Pci e del Pds». Non ci si può avvicinare alla verità senza che «tutti i materiali relativi ai finanziamenti affluiti al partito siano riesumati dagli archivi di Roma e di Mosca e che si faccia luce sulla costellazione di società più o meno direttamente legate al Partito Comunista». Finora, però, gli appelli a fare luce sul passato sono stati respinti dai dirigenti postcomunisti che non hanno respinto anche l’istituzione delle commissioni parlamentari di inchiesta su Tangentopoli e sui bilanci dei partiti.
Alla ripresa della vita democratica nel dopoguerra il Partito Comunista Italiano era non solo il partito più organizzato, ma anche il più ricco, grazie ai finanziamenti che fin dal periodo clandestino riceveva dall’Unione Sovietica di Stalin e ai bottini raccolti durante la Resistenza, tra cui il famoso oro di Dongo. Secondo fonti americane, di cui riferisce Colby, molto bene informato sulle cose italiane, «durante la guerra l’Urss paga in rubli, pari ai dollari e alle sterline, più tardi in lingotti d’oro e in valuta occidentale», e già tra il 1944 e il 1946 sui conti di alti leader comunisti sono depositate ingenti somme di probabile provenienza moscovita.
Si è già detto dei sacchi di 600.000 dollari che Stalin consegna a Secchia nel 1947. Nei trent’anni seguenti i fondi neri che il Pci riceve con contiguità e sistematicità in moneta liquida - essenzialmente dollari Usa - non sono stati oggetto di indagine ma di stime che convergono sui punti essenziali. Massimo Caprara, segretario di Togliatti e stimato dirigente comunista fino al 1969, parla di 5 milioni di dollari l’anno fino al 1976. La stessa somma è indicata da Gianni Cervetti, l’unico comunista a parlare apertamente dei finanziamenti sovietici nel libro L’oro di Mosca - La testimonianza di un protagonista.
15 miliardi di lire l’anno
L’ex responsabile dell’organizzazione del Pci negli anni Settanta racconta che il finanziamento sovietico non si è mai interrotto né modificato dopo gli anni Cinquanta, e che esso rappresentava mediamente il 10% dell’intero bilancio del Pci. Siccome le spese dichiarate dal Pci hanno variato negli anni Settanta da una ventina a una ottantina di miliardi di lire l’anno, e quelle reali sono probabilmente state di entità doppia, è facile dedurre che l’aiuto sovietico in moneta doveva essere compreso tra i 5 e i 15 miliardi di lire l’anno. Sempre Cervetti racconta che nel 1977 a Mosca, nel periodo terminale degli aiuti finanziari sovietici, il compagno Boris Ponomariov del dipartimento internazionale dell’Urss «prese un foglietto di carta e una matita ben appuntita, scrisse qualcosa e me la mostrò. Lessi la cifra di cinque milioni. Si doveva intendere di dollari. Ponomariov accompagnò i gesti con brevi parole dalle quali si desumeva che la somma valeva per l’anno appena iniziato e che si trattava di uno sforzo considerevole di solidarietà, il più cospicuo possibile».
Altre fonti quantificano in maniera più elevata i finanziamenti dell’Urss al Pci. Secondo Colby la cifra versata dall’Urss agli italiani negli anni Cinquanta si aggirava sui 50 milioni di dollari annui; e, più recentemente, nel dossier giunto a Roma dal procuratore generale della federazione russa, Stepankov, e contenente documentazione contabile relativa a ricevute firmate da amministratori del Pci, «a Botteghe Oscure sarebbero arrivati qualcosa come 45 milioni di dollari dagli anni Settanta al 1987».
Il fondo di «solidarietà»
I finanziamenti ufficiali dell’Urss al Pci si sono interrotti nel 1979-80 dopo l’ingresso di Enrico Berlinguer nella stanza dei bottoni del nostro Paese, membro dell’Alleanza Atlantica. Sussistono tuttavia molti segni che il flusso finanziario sia continuato anche negli anni ’80, al di fuori dei rapporti ufficiali con il Pci, fino alla caduta del muro di Berlino. Quando è stato chiesto a Guido Cappelloni, ex tesoriere del Pci negli anni ’70 e poi dirigente cossuttiano e di Rifondazione Comunista, se non fosse imbarazzato per i finanziamenti illeciti che riceveva dal Kgb di Mosca, ha risposto: «Tra i partiti comunisti c’erano rapporti di vario tipo e tra questi anche quelli di finanziamento. Esisteva a Mosca un fondo di solidarietà da cui si attingeva. Noi, come tanti altri».
Ma i pm archiviano
Nel 1994 il pm di Roma Franco Ionta archiviava l’inchiesta sui fondi neri sovietici ai comunisti italiani con una singolare motivazione: «Certo, appaiono inquietanti i riferimenti a corsi di addestramento al sabotaggio, all’uso di armi ed esplosivi e/o a tecniche di travisamento, accompagnati da un notevole flusso di denaro protrattosi fino a epoca relativamente recente spesso su richiesta di parte italiana e a facilitazioni commerciali per ditte vicine al Pci. Purtuttavia, non è possibile processualmente dimostrare che l’interesse dell’Urss nei confronti dei militanti comunisti italiani si sia tramutato in vera e propria corruzione del cittadino per interessi contrari allo Stato italiano». Una così singolare conclusione dell’azione penale è il tipico esempio dell’atteggiamento passivo di fronte agli illeciti finanziamenti ai partiti assunto da magistrati e politici, ricercatori e giornalisti, che potrebbe essere simboleggiato dalle tre scimmiette che non vedono, non sentono e non parlano.
L’omertà dei politici
L’intera classe dirigente italiana ha scientemente ignorato lo scempio della democrazia che si è a lungo protratto con i finanziamenti esteri ai partiti italiani, specialmente quelli a favore dei comunisti da parte dell’Urss, potenza nemica dell’Alleanza Atlantica. Il capitolo dell’omertà sul denaro proveniente da Stati stranieri da parte dei leader italiani è forse ancora più grave degli stessi finanziamenti esteri.
Sono curiosi, e inquietanti, due episodi che racconta il testimone Cervetti: «“Gli altri sanno tutto ed è bene che sappiano anche della conclusione” mi disse Luigi Longo, quando nel 1977 gli comunicai della decisione di interrompere i rapporti finanziari con l’Urss. “Vedi, quando il nostro uomo riceve i dollari, si reca a cambiarli da un cambiavalute che fa lo stesso mestiere anche per altri e che li informa di ciò che noi facciamo. In Vaticano e da Fanfani sanno tutto quello che combiniamo».

Negli stessi giorni il ministro dell’Interno del governo della Repubblica, Francesco Cossiga, riceveva un alto esponente dei servizi segreti che gli chiedeva come si dovesse comportare con l’uomo della valigetta dei dollari sovietici: «Di che si tratta? Di valuta pregiata che entra in Italia?», interrogava Cossiga «Sì». «E allora lasci che entri».
(5. Fine)

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