Nello stesso giorno nel quale il testo della lezione di Benedetto XVI all'università di Ratisbona diveniva il pretesto per insulti, intimidazioni, minacce, violenze giunte fino all'assassinio di suor Leonella Sgorbati, alcuni intellettuali italiani di sedicente ispirazione laica, su iniziativa del Grande Oriente d'Italia, si riunivano per difendere lo Stato dalla minaccia della Chiesa cattolica. Pochi giorni dopo, quando il Cardinale Camillo Ruini ha espresso, a nome dei vescovi italiani, l'indignazione per questo attacco alla libertà d'espressione - ancor prima che alla libertà di religione - e ha rivendicato il dovere dei cattolici di difendere pubblicamente i principi provenienti dalla loro fede, c'è chi ha obiettato che quest'intervento violava il Concordato.
Sono solo gli ultimi episodi che richiamano l'urgenza di una riflessione seria sullo spazio pubblico della religione - si badi bene, non soltanto di quella cattolica - in una fase nella quale certezze vere o presunte del passato sono state frantumate dalle esigenze del momento storico.
È questa in Italia una riflessione particolarmente complessa a causa, innanzi tutto, del suo passato più remoto. Per quanto possa apparire paradossale, pesa ancora il fatto che il nostro Paese sia l'unico grande Stato moderno che si è fatto contro la Chiesa. Pesa ancora, ad esempio, la lettura superficiale e tutta ideologica che ancora si dà della formula cavouriana «libera Chiesa in libero Stato». In essa è stato visto uno slogan anti-clericale mentre, nella realtà dei fatti, era espressione di un indirizzo «separatista» che riteneva la religione elemento fondamentale del processo di civilizzazione e del rinvigorimento delle istituzioni liberali. Quest'indirizzo, già a quel tempo, si contrapponeva con il «giurisdizionalismo» (che sarebbe poi divenuto egemone), che richiedeva allo Stato di ricercare per via positiva le sue garanzie contro la temuta invadenza della Chiesa. Pesa, e ancor di più, la convinzione che il Concordato sia stato frutto originario e originale dell'incontro tra la Chiesa e il fascismo, che avrebbe fondato quella corrente comunemente indicata come «clerico-fascismo». Anche in questo caso la verità è diversa. Perché la soluzione concordataria maturò lentamente e bilateralmente - dalla parte della Chiesa non meno che da parte dello Stato liberale - a partire dalle novità, dalle esigenze e dalle urgenze maturate nel corso della Prima Guerra Mondiale. Basti, a tal proposito una sola citazione proveniente da un uomo che in seguito - evidentemente perché anti-fascista, non perché anti-cattolico - sarà un oppositore strenuo della conciliazione. La citazione è tratta da uno scritto di Gaetano Salvemini del 1922, di poco anteriore all'avvento al governo di Mussolini: «La transazione, guardata con spirito sgombro da sdilinguimenti conciliatoristi e da convulsioni massoniche ritardatarie, non merita né di essere sospirata come indispensabile, né condannata come dannosa, né disdegnata come del tutto inutile. È un frutto che va maturando». E che in seguito - si potrebbe aggiungere - sarebbe maturato.
Il dibattito che si svolgerà oggi a Norcia («Religione e spazio pubblico») promosso da Magna Carta non sarà un seminario di storia patria. Resta però l'esigenza di tornare su questi temi, al fine di correggere il senso comune dominante. Inoltre, recuperare questo sfondo più antico serve anche a cogliere la novità del tema, che si trova oggi alla confluenza di due eventi epocali.
Da un canto, infatti, la regolamentazione del rapporto tra religione e spazio pubblico, in vigore in Italia per tutta la seconda metà del Novecento, è definitivamente saltata. In primo luogo a causa dell'impronta impressa da Giovanni Paolo II, che ha portato in Occidente dal mondo comunista l'esperienza della sua «Chiesa del silenzio» al cui messaggio apostolico erano preclusi tutti i canali istituzionali. Si aggiunga a questo la fine del partito unico dei cattolici assieme al tramonto delle grandi ideologie secolari novecentesche. A seguito di tutto ciò, temi centrali per il magistero ecclesiastico, ma a lungo marginali nell'arena pubblica, sono invece divenuti dirimenti al punto che intorno ad essi si modellano oggi gli schieramenti politici contrapposti.
Dall'altro canto, si pone il problema identitario, nuovo sia nei suoi termini che nelle sue conseguenze. Anche in questo caso è possibile enumerare le cause principali di questa novità: il flusso migratorio che porta in Italia un numero crescente di persone di differente religione; il contemporaneo diffondersi di una corrente culturale «relativistica» che svaluta le specificità della tradizione giudaico-cristiana e, di conseguenza, il senso della relazione tra religione e costumi civili; infine, la sfida esterna proveniente dal radicalismo islamico che si pone apertamente l'obbiettivo di annientare la civiltà occidentale. In questo contesto, il problema dello spazio pubblico della religione assume aspetti inediti e pone quesiti inediti.
Alcuni di essi cerco di seguito d'individuarli. Primo tra tutti: è ancora possibile ritenere che la Chiesa, in nome del rispetto della laicità, debba astenersi dal rivendicare direttamente uno spazio pubblico per i precetti richiesti dalla fede? E ha senso richiedere a un cristiano di rinchiudere nel ghetto della coscienza individuale il significato della propria appartenenza religiosa? E, ancora, di fronte agli attacchi interni ed esterni, perché un non credente dovrebbe astenersi dal difendere la libera espressione della religione che è parte integrante del proprio patrimonio identitario?
Il problema del rapporto tra religione e spazio pubblico si pone, però, anche in altro senso. C'è anche da chiedersi, infatti, come sia possibile porsi laicamente nei confronti di quanti giungono in Italia provenienti da civiltà diverse, coniugando insieme il rispetto per i presupposti della nostra cittadinanza e della loro religione. In altri termini: se non si vuole essere ideologicamente spensierati come l'attuale maggioranza, attraverso quali strumenti e proposte è possibile promuovere la cittadinanza senza pretendere la conversione? È un problema che investe ambiti differenti come quello del rispetto di diritti fondamentali della persona, dell'educazione, della regolamentazione dei culti. E che impone d'individuare strade nuove per l'integrazione, differenti sia dalla soluzione multiculturale «all'inglese» sia dall'obbligo di una religione di Stato «alla francese».
L'urgenza di tale riflessione è data dal fallimento di entrambe queste soluzioni, che si è dovuto drammaticamente constatare negli ultimi anni. L'Italia ha un vantaggio, computabile in qualche anno, perché da noi la proposta avanzata a suo tempo - e con grande scandalo - dal Cardinale Biffi (ovvero, la regolamentazione delle quote d'ingresso in modo da tenere sotto controllo il problema identitario), almeno in parte, si è attuata nei fatti. Ma se si smarrisce questo vantaggio temporale, presto ci troveremo ad affrontare le medesime tragedie andate in onda in altri Paesi europei.
Su queste frontiere il mondo laico deve quanto meno confessare il proprio ritardo.
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