«Un filo lega i miei personaggi dei cinepanettoni a quello che interpreto nel Figlio più piccolo di Pupi Avati. Sono cialtroni: i primi bonari e accattivanti; il secondo, uno schifoso». Parola di Christian De Sica. Il suo ultimo film, Natale a Beverly Hills di Neri Parenti, è a quasi 18 milioni d’incasso nelle sale. Tv e dvd moltiplicheranno questa cifra provvisoria; il totale dovrebbe attestarsi sui soliti livelli di questi prodotti (24-25 milioni).
Il 19 febbraio uscirà un altro film con Christian De Sica, appunto Il figlio più piccolo di Pupi Avati, peraltro girato prima di Natale a Beverly Hills. È un confronto a geometria, anzi a ragioneria variabile. Infatti la media degli incassi degli ultimi tre film di Avati è sui 3/3,5 milioni. Inserire come protagonista in una sua commedia all’italiana l’astro della farsa ridurrà la forbice fra esiti del cinema della professionalità e di quello della qualità?
Il divario non è una novità? Quasi sempre i gusti del pubblico si sono spartiti così. Nel film di Parenti il personaggio di Christian De Sica si chiama «Passera» e quello di Massimo Ghini si chiama «La Fregna»? Ma i personaggi di Totò non si chiamavano ora «La Quaglia» (Destinazione Piovarolo), ora «La Trippa» (Gli onorevoli)? L’allusione ornitologica-ginecologica era allora meno esplicita, ma solo per evitare denunce per oltraggio al pudore. Il cui «comune senso» oggi è meno ipocrita. Ai tempi di Totò si diceva: «L’ipocrisia è il prezzo che il vizio paga alla virtù».
In una recente intervista, Christian De Sica ha concordato con quel che ho scritto spesso: che i film italiani rispecchiano, talora enfatizzano, la volgarità italiana, specie quella roman(esc)a, perché il cinema, come la Chiesa, è romano e - nel caso di Avati - cattolico. Rispetto all’Italia del passato, che nei suoi film Avati ha tratteggiato spesso con nostalgia solo apparente, c’è una differenza: il benessere diffuso. E questo ha fatto cadere le inibizioni, alla base della considerazione: «Il pudore è la ricchezza dei poveri». È vero peraltro che, con la crisi, pudica la maggioranza degli italiani tornerà presto...
Forse è con questa consapevolezza che Christian De Sica ha detto che il padre Vittorio, il regista di Teresa Venerdì, Ladri di biciclette, Umberto D. e Miracolo a Milano, «sarebbe disgustato» dal presente. Quanti esponenti dell’attuale cinema da incasso, pur pensando allo stesso modo, l’avrebbero detto?
La consapevolezza del declino cinematografico, oltre che di quello nazionale, affiora anche da un altro dettaglio, originata proprio dal Figlio più piccolo: «Avati non mi ha fatto andare avanti con gli stereotipi. Per la prima volta ho avuto un regista a dirmi “fai più piano”. Da gigione, infatti, andavo sopra le righe». Si noti: «Per la prima volta» dopo quasi quarant’anni di carriera... E anche questa carenza di professionalità pare un riflesso di ciò che accade un po’ ovunque.
Del resto Avati stesso si fa interprete di un disagio non nuovo. Ma nel Figlio più piccolo avrà l’ironia e il sarcasmo di Dino Risi nel descrivere gli anni del boom e del dopo-boom? Avati ha incantato il pubblico con le sue disincantate malinconie, più che con la cattiveria. Eppure ha due gioielli alle spalle come Ultimo minuto e Impiegati, che mostravano l’importanza già allora, un quarto di secolo fa, della corruzione. Il figlio più piccolo torna da quelle parti, con un finanziere (Christian De Sica) improvvisato, che comincia la carriera - proprio nel 1992 di Mani pulite - appropriandosi di due appartamenti della moglie (Laura Morante), sposata ad hoc. L’aiuta un frate mancato (Luca Zingaretti), che veste in giacca, cravatta e... sandali francescani. Il loro sodalizio funziona fino al presente, quando l’impero economico si rivela l’involucro di enormi debiti. Ed ecco la trovata: immolare nel tracollo il figlio più piccolo (l’esordiente Nicola Nocella) e abbandonato del finanziere, un minus habens, come la madre...
Si profila qualcosa di più interessante sotto la trama: il duello fra De Sica e Zingaretti potrebbe essere il maggior richiamo del film, data la popolarità di entrambi fra pubblici diversi. Che si coalizzeranno?
Fra i due è De Sica a rischiare: non tanto per aver accettato il ruolo di un mascalzone più mascalzone degli altri, quanto perché Avati non gli permetterà d’essere cattivo fino in fondo.
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