L’ultimo saluto dei milanesi a Gaetano Afeltra

Luciana Baldrighi

Ieri mattina nella chiesa di San Francesco di Paola in via Manzoni a dare l’ultimo saluto a «Gaetano Afeltra il signore di Milano», come l’aveva definito Indro Montanelli, c’erano proprio tutti: direttori ed editori, stilisti e imprenditori, ristoratori e gente comune, l’affetto di una città alla quale aveva consacrato la sua esistenza. Davanti alla semplice bara di legno chiaro circondata da rami di orchidee rosa e bianche, i suoi fiori e i suoi colori preferiti, monsignor Cecilio Rizzi ha pronunciato un’omelia commossa, ma non triste, in sintonia con lo spirito dell’uomo scomparso e forte di un’amicizia pluridecennale. «Chissà come avrebbe commentato il suo funerale» ha detto. «Sicuramente lo scrupolo del cronista gli avrebbe fatto registrare tutti i nomi e i fatti della cerimonia, ma la sua arguzia e la sua curiosità non gli avrebbero impedito di trovare il particolare toccante, il tocco di colore. Lui era fatto così».
I gonfaloni dei comuni di Amalfi, sua città natale, e di Milano, la sua città adottiva, hanno fatto corona alla figlia Maddalena e a una folla commossa. I direttori del Corriere, del Sole 24ore e del Giornale, i direttori e gli editori della Mondadori e della Rizzoli, i vecchi colleghi, «gli ultimi superstiti» come li ha definiti Enzo Biagi, ovvero lui stesso, Giorgio Bocca, Mario Cervi, Igor Man, il prefetto di Milano Ugo Ferrante, gli amici di sempre, Ottavio Missoni, Almerina Buzzati, Maria Pezzi, Cicci Locatelli, Lella Curiel, Cesare Rimini, rappresentanti dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti, della Scala, i sindaci di una Milano in cui Afeltra ha trascorso più di mezzo secolo, Carlo Tognoli, Paolo Pillitteri.

Al suono dell’Avemaria di Schubert la salma è stata accompagnata al Monumentale per essere seppellita accanto alla moglie Aurelia, compagna paziente di un uomo impaziente eppure mite, che sapeva parlare ma ancor più sapeva ascoltare.

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