Nel 1984, dodici anni prima che Wislawa Szymborska fosse insignita del Premio Nobel, Iosif Brodskij, durante il discorso inaugurale tenuto a Torino per la prima edizione del Salone del Libro, diede alcune preziose indicazioni di lettura agli appassionati di poesia. Dopo aver fatto l’elenco dei maggiori poeti di lingua inglese, tedesca e spagnola, Brodskij suggerì i nomi di alcuni poeti greci e polacchi. «Se conoscete il polacco - disse - (e sarebbe un grande vantaggio, perché la più straordinaria poesia di questo secolo è scritta in polacco) vorrei segnalarvi i nomi di Leopold Staff, Czeslaw Milosz, Zbigniew Herbert e Wislawa Szymborska».
A seguire il consiglio di Brodskij non fu soltanto l’Accademia svedese la quale, dopo aver assegnato il Nobel a Milosz nell’80, nel ’96 premiò la poetessa di Cracovia. Furono moltissimi lettori in tutto il mondo, dagli arabi ai cinesi e ai giapponesi, e perfino in Italia, dove le raccolte di versi della Szymborska hanno venduto decine di migliaia di copie. Per un Paese come il nostro, dove si legge poco di tutto e pochissima poesia, è un bel riconoscimento, concesso per giunta a rarissimi poeti.
A che cosa si deve tutto questo? In primo luogo, ovviamente, ai suoi versi e al suo traduttore italiano, Pietro Marchesani, che dal ’93 si occupa della poetessa polacca con passione pari alla bravura (una quindicina i titoli da lui tradotti), e a cui si deve il ponderoso volume delle Opere appena uscito da Adelphi, che contiene 223 poesie con testo a fronte, oltre a una ricca sezione di prose (pagg. LI-1132, euro 70). Ma se i poeti eccellenti e ben tradotti sono numerosi, e pochi invece quelli che vendono, ci dev’essere qualche altra buona ragione se la Szymborska è un fenomeno così raro.
Che abbiano ragione i parrucconi dell’Accademia svedese, che l’hanno definita «Mozart della poesia» e l’hanno scelta per «l’ironica precisione \ permette al contesto storico e biologico di manifestarsi in frammenti di verità umana»?
Proviamo a leggerla. «Da qui si doveva cominciare: il cielo./ Finestra senza davanzale, telaio, vetri./ Un’apertura e nulla più,/ ma spalancata.// Non devo attendere una notte serena,/ né alzare la testa,/ per osservare il cielo./ L’ho dietro a me, sottomano e sulle palpebre./ Il cielo mi avvolge ermeticamente/ e mi solleva dal basso. \ Il cielo è onnipresente/ perfino nel buio sotto la pelle.// Mangio cielo, evacuo cielo./ Sono una trappola in trappola,/ un abitante abitato,/ un abbraccio abbracciato,/ una domanda in risposta a una domanda» (Il cielo). «C’è un tale silenzio in noi,/ che riusciamo a sentire/ la canzone cantata ieri:/ “Tu vai per la montagna, io per la valle...”/ E pur se la sentiamo - non ci possiamo credere.// \ ci dispiace per quelli che non si amano.// Siamo così stupiti da noi stessi,/ cosa mai potrà stupirci di più?/ Non un arcobaleno nella notte./ Non una farfalla sulla neve» (Gli innamorati, trad. Valeria Rossella).
C’è, in questa poesia, un lirismo pacato, una limpidezza soave e un tono di sorridente riflessività. La cifra della Szymborska è precisamente questa. Temi e ispirazione della sua poesia - è lei a dirlo, in una conversazione con Federica Clementi in calce al volume - sono le mille cose che ti succedono intorno, una frase, un’immagine, un fatto (anche se poi bisogna «lavorarci sopra, faticare, modellare l’ispirazione originaria, finché non assume una forma, finché non acquista un’esistenza»). Il suo canto è come una musica orecchiabile, il suo dettato è di una semplicità che può apparire banale, ma che non è mai ingenuo, invece fluido e scorrevole. Frutto, appunto, di un faticoso labor limae di perfezionamento. La sua scrittura è priva di moralismi, di doppi sensi dogmatici o ideologici, frutto invece di un’osservazione profonda e riflessiva della realtà. Lei vi aggiunge una vena lieve di ironia (ma, precisa, «venata di compassione»), che è anche un antidoto alla seriosità e una maschera per evitare l’imbarazzo del sentimentalismo.
C’è poi la «felicità dello scrivere», come s’intitola una sua poesia, che questa soave signora di 85 anni riesce a trasformare in «felicità del leggere» per la gioia dei suoi lettori, soprattutto per le legioni delle sue giovani fan. Se la storia si snoda intorno a fatti orripilanti (molti dei quali non possono non far parte della biografia di chi è nato in Polonia nel 1923), ai quali ne seguono sempre altri più terribili, niente, afferma la Szymborska, può impedirci di scrivere, perché la scrittura è la «possibilità di perdurare,/ la vendetta di una mano mortale». E se «dopo ogni guerra/ c’è chi deve ripulire \. C’è chi deve spingere le macerie/ ai bordi delle strade/ per far passare/ i carri pieni di cadaveri», c’è anche «chi deve starsene disteso/ con una spiga tra i denti,/ perso a fissare le nuvole» (La fine e l’inizio).
Anche dopo una militanza poetica durata più di sessant’anni e una dozzina di volumi di versi pubblicati, dopo centinaia di traduzioni in decine di lingue, questa grande dame della poesia, laureata con il Nobel, non ha mai rinunciato al suo tono sommesso e al suo appartato e un po’ provinciale buen retiro di Cracovia.
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