Aveva appena 6 anni, Vincenzo Pipino, detto Encio, quando il resto del mondo decise di chiuderlo fuori per sempre, mettendo fra sé e lui porte blindate a cinque mandate, impianti d’allarme, telecamere di sorveglianza, fotocellule, vetri antisfondamento, grate. Il fattaccio accadde nella scuola elementare Armando Diaz, durante la ricreazione. «Noi, figli dei poveri, denutriti, braghe corte e geloni sulle mani, eravamo in ultima fila, perché il maestro riservava i primi banchi ai figli dei sióri che lo riempivano di regalini», e a Venezia, per antonomasia la città dei «gran signori», ce n’erano tanti anche allora di sióri , oh se ce n’erano. «Il capoclasse, rampollo di un farmacista del sestiere Castello, veniva in aula col cestino della merenda pieno d’ogni bendidio. Quel giorno addentò per ultima una mela. Io avevo un buco nello stomaco grande così. Gli chiesi: vànzeme almeno el rosegòto, avanzami il torsolo da rosicchiare. “Toh, se lo vuoi, raccoglilo”, rispose con disprezzo, e lo gettò sul pavimento. Non ci vidi più. Gli saltai addosso. Finendo a terra, si morsicò la lingua. Il sangue gli zampillava dalla bocca. Mi espulsero a vita dalle scuole di ogni ordine e grado».
In realtà stavano per rinchiuderlo all’Istituto medico psicopedagogico, «un nome che ancora oggi mi fa venire la pelle d’oca», ma sua madre Cesira tanto brigò per sottrarlo a quella sorte infelice che alla fine riuscì a trovargli un lavoro ancora più infelice: aiutante in un’agenzia di pompe funebri nei pressi di Santa Maria Formosa. «A 8 anni tutto il giorno tra morti da vestire e bare da spolverare. Dica un po’,lei avrebbe resistito?».Poi garzone di pasticceria: «Dal banco il titolare mi ordinò: “Fischia!”. E io non ci riuscii, perché avevo la bocca piena. Dovevo pur sfamarmi. Piombò in laboratorio, mi massacrò di botte e mi cacciò». Poi apprendista fotografo. Poi... Poi la strada diventò la sua scuola. Diciamo pure l’università: 3.000 furti tra musei e abitazioni private; 50 gioiellerie svaligiate; una media di 30 quintali d’oro (che lui chiama polenta per via del colore) rubati ogni settimana in giro per l’Europa, «a quel tempo valeva 370 lire il grammo, ne avevo talmente tanto che ero costretto a darlo in conto vendita». E una quindicina di arresti, di cui tre in flagranza di reato («mai in Italia, due volte a Losanna e una a Düsseldorf»), 300 denunce, 15 condanne, un’evasione spettacolare da un penitenziario svizzero del Cantone di Vaud.
La sua specialità erano le collezioni d’arte. Non c’è dimora storica affacciata sul Canal Grande o su piazza San Marco che sia stata in grado di resistergli. Non c’è santuario del bello che non sia riuscito a violare, a cominciare dal Palazzo Ducale, primo e unico ladro nella storia a espugnarlo, per finire col museo Correr. Sulla galleria privata di Peggy Guggenheim mise le mani addirittura due volte nello stesso anno, il 1971, prima a febbraio e poi a dicembre, sempre assistito dalla batteria, come la chiama lui;i sette uomini d’oro, come li chiamavano allora i cronisti di nera suggestionati dalfilm di Marco Vicario con Rossana Podestà. Perché servono dei complici - Gino, Pòpe, Cippo le Tabarin, Marcian, My Bob e Antoine de la Rose - quando devi trafugare 15 dipinti al primo giro e 17 al secondo, «lei non ha idea di che cosa significhi portarsi via sotto il braccio un Picasso, un Magritte, un Balla, un Kandinskij, un Braque, due De Chirico, due Klee, due Malevich, due Ernst, due Moore...».
Eppure nessun capolavoro è mai uscito da Venezia. Al massimo è finito sepolto per pochi mesi in un campo a Chirignago, 15 chilometri, lungo la strada Miranese. «Ho sempre restituito tutto, e perfettamente integro, magari in cambio di un piccolo contributo», volgarmente detto riscatto. «La questura ci faceva la sua bella figura e noi mangiavamo. L’importante è che i tesori della città non andassero perduti. Se il patrimonio artistico della Serenissima è ancora al suo posto, ruberie di Napoleone a parte, lo si deve all’amorevole vigilanza che il qui presente Pipino Vincenzo esercita da sempre. Finché avrò respiro, malavitosi foresti qui non ne arriveranno».
Il ladro più onesto d’Italia sintetizza la sua vita così: «Sono rimasto in prima elementare per mezzo secolo». Destino segnato quando ti capita di nascere in calle Malatin, sinonimo toponomastico di pellagra, rachitismo, pediculosi. Ha imparato a leggere e scrivere in galera. Il tempo non gli è mancato: su 67 anni di vita, 25 li ha passati dietro le sbarre, avendo come compagni di detenzione gli Strangio, i Graviano, Francis Turatello, Michele Zaza, Valentino Gionta e Vincenzo Scarantino, il pentito della strage di via D’Amelio in cui morì il giudice Paolo Borsellino, ma anche il professor Toni Negri, che è rimasto suo grande amico, e Alberto Franceschini, uno dei fondatori delle Brigate rosse. E quelli che non ha conosciuto dentro, li ha frequentati fuori: Enrico De Pedis, detto Renatino, il capo della banda della Magliana oggi sepolto in una chiesa di via della Conciliazione; la sua amante Sabrina Minardi; il suo braccio destro Danilo Abbrucciati; Antonio Spavone, detto ’O Malommo, che guidava la camorra prima di Raffaele Cutolo. Ma senza mai possedere un’arma, senza mai non dico torcere un capello ma anche solo farsi vedere dalle sue vittime. Pipino è sposato dal 1968 con Carla. «Purtroppo mia moglie non poteva avere figli. Però abbiamo cresciuto tanti nipoti perbene: uno vicedirettore di banca, uno laureato in scienze politiche, una proprietaria di un’agenzia di viaggi».
Suor Pierina,l’angelo custode dei reclusi nel carcere veneziano di Santa Maria Maggiore, gli fece conseguire il diploma di terza media con un esame cumulativo, senza bisogno di frequentare le lezioni. Adesso Encio, autodidatta coltissimo e un po’ filosofo,è diventato scrittore. Ha pubblicato Rubare ai ricchi non è peccato ( Edizioni Biblioteca dell’Immagine) e dalle pagine di Facebook dispensa trucchi del mestiere e consigli di vita. Quello che gli sta più a cuore è rivolto ai giovani e vuole dettarlo qui: «Allontanatevi. Non imitatemi. Non fate la mia vita: quando starà per finire, come ora succede a me, vi accorgerete di stringere fra le mani un affettuoso e intimo nulla».
Che cosa vuol dire nascere a Venezia?
«È un privilegio. Abito alla Giudecca. Se mi dicessero di traslocare altrove, morirei. Oltre il ponte della Libertà c’è solo campagna. Compresa Parigi».
Come si diventa ladri?
«Per necessità. Strada facendo si trasforma in virtù. La mia generazione ha sempre rubato onestamente. Non ho mai tenuto in tasca neppure un temperino. Una volta andai a ripulire la casa di una nobildonna veronese, Bianca Bevilacqua mi pare che si chiamasse. Nella cassaforte trovai un plico con scritto sopra: “ Da aprire solo dopo la mia morte”. Un malvivente qualsiasi l’avrebbe aperto subito, chissà che cosa poteva contenere. Io invece lo lasciai intatto. Da ciò la contessa dedusse che fossi un ladro gentiluomo e fece pubblicare un’inserzione a pagamento su tutti i giornali d’Italia,offrendomi 15 milioni di lire in cambio della refurtiva. Purtroppo i gioielli erano già stati venduti, altrimenti glieli avrei restituiti volentieri. In particolare due grossi orecchini con diamanti e smeraldi li vedo indossare da una famosissima attrice italiana ormai avanti con gli anni».
Ricorda la prima cosa che ha rubato?
«Un bidone del latte da 50 litri. Non era facile, a 8 anni, farlo rotolare fino in calle Malatin. Ad attendermi c’erano tutte le mamme, compresa la mia. Da quel giorno assicurai il rifornimento gratuito ai poveri del sestiere. Il bidone d’alluminio lo schiacciavo e lo vendevo a un robivecchi di calle de la Pegola. Finché quattro poliziotti non mi aspettarono al varco. Fui portato in questura e bastonato.
Allora funzionava così: ti pestavano. Ormai ero segnato a vita».
Avrebbe potuto cambiare vita.
«Che cosa fa il procione? Si gratta e ruba. Lo arrestano il procione?
No. E allora che colpa ne ho io se provo questo continuo prurito alle mani? Da fornaio portavo il pane all’Arsenale.
Vidi la cambusa aperta e mi caricai un sacco di zucchero nella gerla, saranno stati 30 chili. La guerra era finita da poco, lo zucchero si vendeva a grammi, come la droga. “Semo sióri!”, esclamò mia mamma, una veneziana molto pratica, vedendomi arrivare. Alla sera rincasò mio padre Antonio, pugliese tutto d’un pezzo di San Nicandro Garganico. Mi chiese: “Chi te l’ha dato?”. L’ho trovato, risposi. Immaginarsi se potevo farla a lui, un nocchiere. Sul sacco c’era stampigliato “Marina militare”, ma io non me n’ero accorto, perché non sapevo né leggere né scrivere.
“Adesso lo riporti dove l’hai rubato”, mi ordinò. Mia nonna Nene si sedette sul sacco: “Eh no, el zùcaro no’ va fora de qua!”».
Il primo colpo grosso a che età?
«A 14 anni. D’estate ci infilavamo sotto i capanni del Lido e bucavamo col trapano le assi del pavimento per sbirciare Sophia Loren, Gina Lollobrigida e Marisa Allasio che si spogliavano. Uscivamo da lì sotto alle 8 di sera con gli occhi fuori dalle orbite. D’inverno mi venne un’idea: svitare le assi in modo da poterle sollevare nella bella stagione mentre i bagnanti erano stesi al sole. Dai portafogli rigonfi portavo via solo un po’ di soldi, quanto bastava per comprarmi i primi jeans da Vittadello. Un’estate adocchio un americano che esce dall’hotel Des Bains con la famiglia. Aveva un rotolone di dollari nel taschino della camicia. Corro alla Standa, acquisto un paio di bermuda e raggiungo a nuoto la spiaggia dei miliardari, per non dare nell’occhio. Attacco bottone con John, il figlio scemo dell’americano, lo invito a giocare a calcio, dopo un po’ un tiro finisce dritto nel capanno. Con la scusa di recuperare il pallone, mi fiondo dentro, rubo dalla camicia tutti i dollari, m’infilo il malloppo nelle mutande, poi fingo un attacco di cacarella e me la svigno. Saranno stati 200.000 euro di oggi. Il capo della Mobile, Angelo Sciuto, andò a colpo sicuro. Sospettava da tempo che il predone del Lido fossi io. Mi ritrovai a passare la notte nel carcere minorile delle Zattere. L’indomani vennero tre poliziotti a interrogarmi. Uno di loro cominciò a spegnere il suo sigaro sul mio corpo, ho ancora i segni delle bruciature sulla pancia e sull’inguine, vuole vederli?».
Lasci perdere. Continui.
«Io urlavo per il dolore, ma non confessavo. Non volevo arrecare questo dispiacere a mio padre. Sette mesi di galera».
E una volta scarcerato?
«Una trentina di colpi in giro per l’Europa. La banda del buco l’ho inventata io, insieme con i miei complici, altro che Peppe er Pantera, Tiberio, Ferribotte e Capannelle dei Soliti ignoti di Mario Monicelli. Si sceglieva un appartamento momentaneamente disabitato sopra una gioielleria, si toglievano le mattonelle avendo cura di non far cadere i calcinacci giù di sotto e poi si aspettava la pausa pranzo, quando i preziosi non vengono chiusi in cassaforte. Con questa tecnica demmo l’assalto all’oreficeria Poncini in boulevard Saint Germain, a Parigi, passando attraverso l’atelier di Pierre Cardin. Purtroppo ci fu una soffiata da Venezia».
Di chi?
«Di un tizio che, per avere campo libero con la moglie di uno di noi sette, doveva far finire in carcere il rivale in amore».
Era più semplice svaligiare la casa dello stilista Cardin in calle dei Muti o Baglioni, vicino al ponte di Rialto.
«Nel campo della moda feci visita all’abitazione di Luciano Benetton, a Ponzano Veneto, ma non trovai niente da portar via, perché non era ancora famoso. Quanto alle dimore patrizie sul Canal Grande, le ho visitate tutte, dai Brandolini d’Adda ai Persico, fino ai discendenti di Azzo degli Azzoni. I Donà delle Rose li gò rovinà: cinque o sei residenze. Facevo fessa la giusta (nome della polizia nel gergo della malavita veneziana, da giustizia, ndr) usando la gondola. I poliziotti tenevano d’occhio solo i motoscafi. S’è mai visto un ladro che scappa remando?».
Non si curava dello shock che provocava
nelle famiglie profanando l’intimitàdelle loro abitazioni?
«Semmai lo shock lo provavo io nel vedere com’erano tenute. Da quella di un grande industriale, in piazza San Marco, uscii con i calzini da buttare, tanto era sporca. Che disordine! Un brillante grosso così abbandonato sul bidè, pellicce per terra, orologi di gran marca sparsi qua e là».
Con quale criterio sceglieva gli obiettivi?
«Che domande! L’assenza del proprietario. Un giorno del 1998 esco dall’Harry’s Dolci della Giudecca - sono golosissimo di pasticcini - e mi scappa l’occhio su un palazzo con le imposte chiuse, dall’altra parte del Bacino San Marco, alle Zattere. Vado. Leggo i tre cognomi sui campanelli: Collalto-Castillo, Giustinian, Donà delle Rose. Il primo mi è nuovo. Corro alla biblioteca Marciana a far ricerche e trovo un indizio: contessa Cecilia Collalto Giustinian in Falck. È come una frustata alle mie sinapsi: acciaierie Falck uguale Alberto Falck, collezione Falck uguale Giovanni Antonio Canal, Canaletto uguale Fontegheto de la farina . La tela dei miei sogni».
Perché?
«Raffigura il piccolo magazzino che sorgeva sul molo di San Marco. In primo piano si vede un ponte che fu distrutto da quelle carogne degli austriaci. Sullo sfondo la Punta della Dogana. Un dipinto di vivace puntigliosità, immerso in quella luce dorata tipica di alcune giornate settembrine veneziane che solo il Canaletto riusciva a rendere con tanta abilità. Decido di andarmelo a prendere. Entro e mi ritrovo in una pinacoteca: Masaccio, Tintoretto, Mantegna, Sebastiano del Piombo, Simone Martini. Bisogna fare una cernita, rispettare la storia. Mentre son lì che ragiono con i miei complici, alle 3 di notte arriva Alberto Falck. Oh, casso! Invece di scappare,aspetto che siritiri nell’ala più lontana del palazzo. Guardo dal buco della serratura e lo vedo seduto davanti alla ribalta di un secrétaire del ’700, intento a scrivere con una Montblanc. Via libera. Un colpo da 20 miliardi di lire».
Non è assurdo rubare una tela notificata, valutata allora 4 miliardi e giudicata invendibile dai critici d’arte?
«Ha mai provato a tenersi un Canaletto in casa per un mese? El sorideva. Xera parfìn più lucido. Un cuore che pulsava. Qualche tempo dopo telefonai all’ufficio di Milano dell’industriale dell’acciaio: sono quello che ha rubato il Canaletto a Venezia, vorrei parlare con Alberto Falck. Alla centralinista tremava la voce: “Rimanga in linea”. Me lo passò. “Che cosa vuole? Parli pure”, mi disse con tono seccato. So che lei ha fatto molte opere di bene, l’ho vista insieme con Papa Wojtyla nella foto in cornice: perché non dona il Fontegheto allacittà di Venezia? “Il dipinto è mio e ne faccio ciò che voglio”, rispose. A dire il vero adesso il dipinto è mio e potrei anche ridurlo in pezzettini, replicai. Tacque per un istante: “Certo, potrebbe distruggerlo. Ma da quel poco che ho potuto capire di lei, sono sicuro che non lo farà”. E riattaccò. Glielo feci ritrovare a Roma e finii in galera per sette mesi. Il capo della Mobile, Vittorio Rizzi, e il sostituto procuratore, Maria Bianca Cotronei, ebbero la loro bella targa. A me Falck inviò alcune casse di vini dei Collalto. Tre anni dopo dimostrò d’avermi dato retta: fece esporre la tela in occasione della strepitosa mostra sul Canaletto alla Fondazione Cini. Ero confuso tra la folla all’inaugurazione. Falck mi riconobbe. Lo salutai e lui ricambiò con un cortese cenno del capo. Ogni tanto continuo a sentire il Fontegheto che mi chiama. Mi dice: “Portami via da questo oblio”».
Mai sognato di rubare La Gioconda , come fece l’imbianchino Vincenzo Peruggia nel 1911 al Louvre di Parigi?
«Compii un sopralluogo: le opere venete che m’interessavano erano di dimensioni troppo grandi. Però alle Gallerie dell’Accademia ho avuto fra le mani La tempesta del Giorgione. È l’unica che Napoleone non è riuscito a fregarci».
Ma che senso ha assaltare per due volte nel giro di dieci mesi la Peggy Guggenheim Collection?
«Ma alora no’ ti g’ha capìo un casso! Era un gioco delle parti che giovava a tutti. I funzionari di polizia recuperavano la refurtiva, finivano sui giornali, ricevevano encomi solenni e facevano carriera. Io mi prendevo un piccolo contributo sulla riconsegna, le spese di trasporto merce, diciamo. Il codice non scritto era: mai portar via la roba da Venezia, mai arrecare danni alle opere d’arte. Rispettato quello, ciascuno dei protagonisti aveva la sua bella convenienza. E poi c’erano anche furti su commissione che non potevi rifiutarti di eseguire».
Sia più chiaro.
«Nel 1991 ero alla Marciana a compulsare i miei amati librid’arte.Mi avvicina un luogotenente di Felice Maniero: “Il presidente vuole vederti”. Ma ci elo ’sto presidente? El còtola? Io il boss della mala del Brenta lo chiamo così, perché da piccolo stava sempre attaccato alla sottana della madre. Il suo scherano mi spiega che Maniero ha bisogno di rubare un pezzo importante a Ca’ Rezzonico per poi fare uno scambio con lo Stato e ottenere il rilascio di un cugino finito in chèba ( gabbia , metonimia per carcere, ndr) . Potevo dirgli di no? Però ho preferito scegliere il Palazzo Ducale. Una sfida con me stesso, visto che non aveva mai subìto furti. Nella Sala dei Censori ho notato una Madonna col Bambino del XV secolo, un olio su tavola uscito dalla bottega di Alvise Vivarini. Mi sono nascosto nelle prigioni. Casa mia. E durante la notte ho fatto al contrario il percorso del detenuto Giacomo Casanova: dai Piombi a Palazzo Ducale attraversando il Ponte dei Sospiri. Sono uscito per calle degli Albanesi con la Madonna. L’ho consegnata a Maniero senza averne in cambio neppure una lira.Avanzai un’unica pretesa: che la restituisse intatta. Si vede che ancora non bastava a far scarcerare il cugino arrestato per traffico di droga, perché in quello stesso anno El còtola fece rubare il mento di Sant’Antonio custodito nella basilica di Padova».
Lei ha «visitato» a modo suo anche il museo Correr.
«Nel 1992 un certo Valerio mi aveva offerto l’equivalente di 200 milioni di lire in marchi per portar via tutti i quadri di Giovanni Bellini. Io pensavo che si trattasse del solito furto con richiesta di riscatto. Ma durante il colpo chiesi: per chi stiamo lavorando? Quello mi rispose: “Penso che tu l’abbia sentito nominare. Si chiama Arkan. L’ho conosciuto anni fa in galera. Oggi è presidente di una squadra di calcio a Belgrado”. Arkan? Serbia?Ma certo! Era il soprannome di Zeljko Raznatovic, inseguito dall’Onu per crimini contro l’umanità commessi durante la guerra nell’ex Jugoslavia. Figurarsi se un macellaio del genere avrebbe riconsegnato i Bellini a Venezia! Dissi al mio complice: vieni con me, devo fare una telefonata urgente. Entrai in una cabina e chiamai il 113».
Dei sette uomini d’oro, che fine hanno fatto gli altri sei?
«Tre sono passati a miglior vita, uno di morte violenta, ucciso dalla mala. Il quarto è diventato un antiquario onestissimo. Il quinto fa il pensionato. Il sesto è un cameriere e un letterato ammodo».
Il suo periodo di detenzione più lungo?
«Sei anni, per cumulo di condanne».
Qual è stata la prigione peggiore?
«Viterbo. Massacravano i detenuti. Vidi sei sette guardie carcerarie ammazzare a calci e pugni un indiano che aveva rifiutato il cibo gettandolo sul pavimento. Approfittai della chiamata di correo in un processo contro Maniero per denunciare il fatto a un pubblico ministero di Venezia. Quattro pagine di verbale in cui, per la non dispersione degli elementi probatorie per la certezza del fatto, chiedevo un immediato intervento. Non accadde nulla di nulla».
Come riuscì a scappare dalla Maison de sécurité élevée de la Plaine de l’Orbe, in Svizzera?
«È un penitenziario per detenuti pericolosi, costruito verso la fine dell’Ottocento dagli stessi reclusi. Il direttore mi disse: “Signor Pipino, se lei ha intenzione di evadere, le consiglio di farsi crescere un paio d’ali come questo uccellino”, e mi indicò un canarino che teneva in una gabbietta.
Da quel momento divenne il mio pensiero fisso. Schiacciando il cappuccio di una penna pubblicitaria dell’hotel Ermitage di Montecarlo, riuscii a ricavare una chiave. Nelle suole delle scarpe custodivo un seghetto. Scrissi al mio aguzzino: “Come ha visto, monsieur le directeur, io sono rientrato a Venezia passando per i suoi coppi e senza le ali del suo canarino”».
Per la legge adesso lei che cos’è?
«Un delinquente abituale. Quindi di primo grado. Dopo di me vengono i delinquenti professionali, secondo grado, e i delinquenti per tendenza, terzo grado. Anche quando non faccio niente, la polizia si chiede: “Dove xelo e cossa sarà drìo far?”. Insomma, so che sono destinato a morire in carcere. Sicuramente. Me lo sento nell’anima».
A sua moglie che ha passato la vita da sola, ad aspettarla a casa, non ci pensa?
«Mia moglie è una santa monogama. Ha sempre lavorato, prima come vetraia a Murano, dove fece anche un lampadario per la principessa Grace di Monaco, e oggi come cameriera».
Quand’è uscito di prigione l’ultima volta?
«Due anni fa. A lei parrà strano, ma in galera sono stato una persona migliore. A Rebibbia mi chiamavano il sindacalista delle carceri. Ero l’avvocato dei detenuti. Ne ho fatti uscire più io che gli indulti. Sono diventato un super esperto in esecuzione della pena».
Cioè?
«Deve sapere che l’8% dei detenuti è dentro ingiustamente per cumuli giuridici in eccesso. Lì intervenivo io. In otto mesi ho fatto togliere 750 anni di carcere. Sa quanto costa allo Stato un detenuto? Circa 350 euro al giorno. Faccia un po’ lei i conti».
Sono 273.750 giorni di detenzione cancellati.
«Appunto. Che moltiplicati per 350 euro al giorno fanno quasi 100 milioni. Sono venuti gli ispettori di via Arenula a complimentarsi: “Lei ha fatto risparmiare al ministero della Giustizia un sacco di soldi”. Che poi bisognerebbe anche chiedersi perché un detenuto costa 350 euro se le imprese che forniscono il vitto si accontentano di appena 1,40 euro al giorno».
Chiediamocelo.
«Ma è ovvio! Per quella cifra il cibo è scarso e scadente. Quindi il detenuto è costretto a procurarsi il sopravvitto a sue spese. S’è mai chiesto chi sono quelli che lucrano sugli spacci interni dei penitenziari? S’è mai chiesto perché la costruzione di una cella di 3 metri quadrati viene a costare al contribuente 175.000 euro, quanto un miniappartamento?».
Ho letto che il suo assistente nella predisposizione dei ricorsi era Mario Piergrossi, condannato per aver ucciso la nonna a forbiciate.
«L’ho fatto scarcerare, ora è un uomo libero. Fosse dipeso da lui, non avrebbe neppure presentato l’appello.Un nichilista che leggeva e rileggeva Delitto e castigo . Tutto il contrario di me. L’ho convinto ad aprirsi,a parlare».
Una decina d’anni fa domandai a Luciano Lutring, il solista del mitra: che cos’è per lei l’onestà? Mi rispose: «Eh, l’onestà! Una roba astratta, non la vedi, nemmeno nelle persone cosiddette perbene. Rapinavamo 100 milioni e la radio parlava di 300. Capito i signori banchieri? Truffavano le assicurazioni. A modo mio credo d’essere stato onesto: spartivo fino all’ultima lira. Ho mai ciulaa i amis. Perché se mi fossi messo a fare il ladro anche con i ladri, che razza di uomo sarei stato?».
«Tutto quello che dichiara il derubato diventa ipso facto fonte di verità. Ma non è mica così, sa? Durante un processo dal quale uscii assolto chiesi a una mia vittima, una discendente del doge Francesco Foscari: mi scusi, ma lei il quadro che le ho rubato dove l’ha preso? Cominciò a farfugliare. Tutto il contrario della Svizzera, dove la polizia per prima cosa vuol vedere le fatture dei beni asportati. Da una gioielleria di Losanna, in avenue de la Gare, uscimmo con 50 chili di oro. Nella denuncia erano diventati 3».
Oggi di che vive?
«Faccio consulenze per i benestanti, gli insegno come proteggere le loro ville dai malviventi. Mi pagano fino a 2.000 euro».
Che genere di consigli offre?
«Evitare le mandate di numero pari alla serratura della porta blindata: o una, o tre, o cinque, e lasciare la chiave nella toppa. Guardarsi dal personale di servizio, dalle badanti, da chi ti viene per casa per qualche lavoro: dietro ogni colpo in 9 casi su 10 c’è la soffiata di un collaboratore infedele. Osservare la presenza di estranei all’esterno dell’edificio: un ladro compie non meno di tre-quattro sopralluoghi prima di agire. E altri trucchi che non posso svelare, per non insegnare il mestiere ai balordi».
È pericoloso avere una cassaforte in casa?
«Più misure di sicurezza adotti e più attiri i mariuoli. Meglio un cartello all’ingresso: “Si avvisano i signori ladri che questa abitazione è già stata visitata tre volte e all’interno non resta più nulla da rubare”. Davanti a un annuncio così, me ne sarei andato persino io».
Qual è il momento più difficile durante un colpo?
«Il furto più pericoloso è quello che ti sembra perfetto sulla carta. Perché non prevede la rinuncia. Io ho avuto spesso il buonsenso di rinunciare.Rubare è un’opera d’arte, il lavoro più difficile al mondo... Se non lo sai fare. Ci sono due categorie di ladri: i distruttivi e i conservatori. I veneziani appartengono alla seconda, purtroppo sono in via d’estinzione. In giro per musei avevo un decoratore d’interni che dopo il buco provvedeva a un restauro ambientale. Mai lasciato macerie, noi».
Che rapporto ha con i poliziotti?
«Ottimo. Di rispetto reciproco. Ma se mi beccano, non c’è grazia per me».
Pensa che tornerà a rubare?
«Mai dire mai».
Il suo ultimo furto?
«Quello di domani».
Che differenza c’è fra un ladro e un politico?
«Il ladro si dichiara. Il politico dice la verità solo se gli presti una maschera».
Come vuole che la definisca nel titolo dell’intervista? Arsenio Lupin della laguna? Fantomas della Giudecca? Il Gatto che s’arrampicava sui tetti in Caccia al ladro di Alfred Hitchcock?
«Cary Grant l’ho conosciuto di persona. Sicuramente ero un gatto anch’io. Una sera d’estate una signora si svegliò di soprassalto sentendo i nostri passi sulle tegole e s’affacciò da un abbaino: “Mariavergine, ci sio voialtri?”. E noi: non si preoccupi, signora, siamo ladri. “Ah, benón. Bona note”».
Solidarietà fra veneziani.
«Però mi sento più vicino a Robin Hood. Su un ponte c’era un povero mutilato, privo di un braccio, che chiedeva l’elemosina. Mentre stavo per lasciargli un obolo, passa una carampana con una pelliccia lunga fino a piedi, lo squadra e gli dice: “Ma va’ a lavorare!”. L’ho seguita per tutta Venezia,tra calli e campielli, fino a quando la vecchiaccia non è entrata in un portone e ho visto accendersi una luce. Per un mese, sera dopo sera, sono andato lì a farle la posta. Al momento buono sono entrato e ho razziato tutto. Tornato a casa mia,ho scoperto che tra la refurtiva c’era l’urna contenente le ceneri del marito. Vede, io ho sempre trovato il modo di restituire oggetti affettivi rubati per sbaglio, tipo la fede nuziale o la catenina d’oro di un figlio defunto. Ma il liofilizzato di quel poveretto mi stringeva il cuore. Sono andato su un ponte del Canal Grande, ho aperto il sacchetto delle ceneri e gli ho detto: va’, caro, starai meglio libero in acqua che accanto a quella megera di tua moglie».
Non s’è fermato davanti a nulla?
«Non ho mai portato via orologi e oggetti preziosi in riparazione, per non togliere all’orefice anche il lavoro. E non ho mai rubato capitelli o saccheggiato chiese. Da bambino andavo all’oratorio della parrocchia di San Francesco della Vigna. A maggio il prete chiudeva le porte del tempio per non farci scappare e dopo il fioretto serale ci dava il pane imbottito con la marmellata regalatagli dai soldati americani, quella solida che si poteva affettare. Alla fine qualcosa, dentro, ti resta. La possibilità di finire all’inferno, per esempio».
E non teme di finirci?
«Chiesi a suor Pierina: madre, ma è tanto difficile andare in paradiso? Lei mi rispose: “Noooo, Encio. Vieni con me”. Mi portò nella cappella del carcere e mi indicò la finestrella con le sbarre. “Vedi quelle nuvole?Là dietro c’è una banca. Un’altra banca è qui in terra. Alla fine, il direttore tirerà le somme. Se hai depositato tanto sul conto in terra, sei fritto. Ma sei hai messo da parte qualcosa sul conto lassù, sei salvo».
E come la mettiamo col settimo comandamento?
«Non rubare? L’ho sempre rispettato. Ho solo svuotato le tasche di chi aveva rubato prima di me».
(522. Continua)
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