Lando Buzzanca: «Che noia i critici e i fan di Moretti»

«Una volta recensirono un mio film citando scene tagliate al montaggio. Per me il western è il genere più noioso e Leone un sopravvalutato. Antonioni? Salvo Blow up»

Caro Lando Buzzanca, chi sono i cinefili snob?
«I critici cinematografici. Insopportabili. Passi per quelli in buona fede, ma quelli disonesti...».
Per esempio?
«Il critico del Secolo XIX di tanti anni fa, non mi ricordo neanche come si chiamava. Nel 1971 mi distrusse un film, Il vichingo venuto dal Sud, senza neanche averlo visto. Nella recensione descrisse alcune scene, definendole “orribili”. Peccato che fossero state tagliate dalla sceneggiatura originale, sulla quale evidentemente aveva scritto il suo articolo».
A quei tempi la critica non era tenera con lei...
«Eppure Variety negli anni Settanta mi dedicò una pagina. Scrivendo che ricordavo Elliott Gould. Ma in Italia subivo soltanto mortificazioni. Anche con metodi sleali. Luchino Visconti, dopo aver visto Il merlo maschio, disse che se Buzzanca fosse stato americano sarebbe stato un altro Dustin Hoffman. Bene, quell’apprezzamento fu ribaltato così: “Se ci fosse stato Dustin Hoffman Il merlo maschio sarebbe stato un capolavoro”».
Come si spiega questo gioco al massacro?
«Un po’ con il nostro provincialismo congenito, un po’ con l’eredità del ’68, quando tutti i cretini pretendevano una cattedra o una poltrona. Così hanno distrutto Venezia e Sanremo. E poi verso di me credo che ci fosse un briciolo d’invidia».
Ovvero?
«Avevo intorno troppe belle donne. Anche se ci fu chi mi fece un complimento indimenticabile: il pubblico guardava più me di Laura Antonelli, che pure era spesso nuda. Eppure l’attrice che ho amato di più, virtualmente, era una brutta, Bette Davis: in realtà era la più affascinante di tutte».
Detesta i critici in blocco?
«Ci mancherebbe. A Pietro Bianchi e Gianluigi Rondi faccio tanto di cappello. Invece boccio Morandini che nell’indice del suo Dizionario finisce la B con la Buy dimenticandomi del tutto».
Una cantonata memorabile di un critico famoso...
«A proposito di Regalo di Natale di Pupi Avati, Callisto Cosulich sbraitò che era stato un abbaglio dare un premio a Carlo Delle Piane. È solo un generico, aggiunse, se esaltano uno così, allora io non capisco niente di cinema. E io pronto gli mandai un telegramma: “È vero, di cinema non capisci proprio un c...”».
In Italia ci sono molti intoccabili, su tutti Fellini e Antonioni. È davvero tutto oro quel che riluce?
«No, di certo. Antonioni? Due palle. C’è una vecchia storiella che è ancora validissima: La dolce vita Nastro d’argento, I compagni Nastro d’argento, Deserto rosso ’na stronzata».
Butta tutto di Antonioni?
«No, salvo Blow up. Invece butto L’avventura, nonostante doppiassi io il farmacista».
Senta, come funziona la rivalutazione degli ex trombati, da Totò a Lino Banfi a, diciamolo pure, a Lando Buzzanca?
«Merito, o colpa, delle nuove generazioni. Se un film, che fu stangato sui giornali, piace ai ragazzi, ecco che rinasce di colpo. Però bisogna stare attenti...».
A che cosa?
«A non ammalarsi di revisionismo. Perché anche Totò ha fatto delle bufale tremende. Totò e Peppino divisi a Berlino merita una stella, mica cinque. Se no a Totò le Mokò bisogna darne mille. Poverò Totò, gli facevano fare filmacci come Totò d’Arabia, era già vecchio. È morto a sessantanove anni. Io, che ne ho settantuno, se non altro l’ho già superato di due anni».
Che ne dice dei film di serie B rivalutati da registi alla moda come Tarantino?
«Mah. Ci vuole qualcuno che poi rivaluti Tarantino».
Sempre Tarantino ha chiamato la Fenech per una parte. Lei da chi vorrebbe essere chiamato?
«Da Billy Wilder, che mi voleva nel ’72 per Che è successo tra mio padre e tua madre?. Ma ormai è un po’ tardi. Mi basta che mi abbia chiamato Roberto Faenza per I viceré. Uscirà presto, forse già in marzo».
Chi sta sveglio fino alle tre del mattino per vedere un film giapponese anni Cinquanta con in sottotitoli è un vero cinefilo?
«No, è da ricovero. Sono film troppo lontani da noi, con pause estenuanti, non bastano quelle stupende atmosfere».
E di Enrico Ghezzi, che conduce in piena notte Fuori orario, cosa pensa?
«Quando parla fuori sincrono mi sembra un pazzo. Però riconosco che ha del genio».
È vero che un film barboso può essere un capolavoro?
«Mah, forse sì. Mi viene in mente Il posto delle fragole di Bergman. È noioso, molto noioso, ma ha momenti di grande poesia».
C’è un genere che detesta?
«Sì, il western. Ci sono sempre delle mandrie sterminate che impiegano una vita a spostarsi. Di John Ford non mi frega proprio niente. Un dollaro d’onore è considerato un capolavoro, ma per me è una gran pizza».
La corazzata Potemkin: lei sta dalla parte dei critici o con Villaggio?
«Ah, con Villaggio. Una boiata pazzesca, mi pare una definizione perfetta. E sempre di Ejzenstein ricordo come un incubo Ivan il terribile, con tutte quelle facce esasperate in primo piano, una noia mortale».
È appena uscita in Italia la biografia di Ejzenstein. Secondo lei quante copie venderà?
«Se va bene cento, facciamo centocinquanta».
Un altro grande rivalutato è Sergio Leone. Lei come lo giudica?
«Un sopravvalutato. Sì, ha il merito di aver scoperto Clint Eastwood, ma i suoi film non mi entusiasmano. A cominciare col pompatissimo C’era una volta in America. Ne abbiamo visti a centinaia di film di gangster».
L’ultimo film in cui si è addormentato?
«Non mi addormento mai, mi esalto. Se un film non m’ispira, non lo guardo. Se poi non mi piace, e mi bastano un paio di scene, cambio canale».
Il film che hai visto più volte?
«I dieci comandamenti. Mi piacciono i film a sfondo religioso, come il Vangelo di Pasolini. Quanto ho pianto a Jesus Christ Superstar».


Un film che non rivedrebbe mai?
«Tutti quelli di Nanni Moretti».
Avversione ideologica?
«Neanche per sogno. Umanamente non ho niente contro di lui. L’altro giorno ho incontrato Santoro e l’ho abbracciato. Avrei voluto essere Gesù Cristo per dirgli: rasserenati».

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