"L'assaggiatrice di Hitler tra desiderio e morte"

L'autrice del romanzo e della pièce al Carcano Rosella Postorino: "Una vittima del regime ne diventa complice"

"L'assaggiatrice di Hitler tra desiderio e morte"
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Perché «Le assaggiatrici» del suo romanzo sono diventate «L'assaggiatrice di Hitler»? Rosella Postorino, premiata col Campiello nel 2018, ha scritto la drammaturgia dello spettacolo tratto dal suo romanzo, al Teatro Carcano dal 20 al 23 febbraio.

«È stata una scelta della produzione e del regista, che ritenevano fosse più forte, a teatro, esplicitare chi si dovesse salvaguardare assaggiando il cibo a lui destinato».

Ci racconta la storia?

«È la stessa storia del romanzo, ispirata a un fatto davvero accaduto: nel 1943, in Prussia Orientale, dieci donne tedesche furono costrette ad assaggiare il cibo destinato a Hitler per verificare che non fosse avvelenato. A narrarla è Rosa Sauer berlinese rifugiata dai suoceri a Gross-Partsch il cui marito è al fronte. Tra lei e le altre assaggiatrici si instaurano rapporti di solidarietà ma anche conflitti: la caserma-mensa diventa un microcosmo che riflette le dinamiche di convivenza sociale, nonché il potere e la violenza del nazismo. È la vicenda di una donna che diventa complice del regime perché ne è innanzitutto vittima».

Come scoppia l'amore in mezzo al male assoluto? E riesce a trasformarlo?

«Più che d'amore io parlerei di desiderio, del bisogno di essere vista, toccata, guardata, come ogni essere umano. Del bisogno di sentirsi una persona, non una cavia. Il desiderio di Rosa per Ziegler è una rivolta contro la reificazione che il lavoro di assaggiatrice le impone. Quel tipo di desiderio non trasforma il male, ma desiderare è una rivendicazione di esistenza, e in un certo senso, sotto l'oppressione nazista, è un gesto politico. Ma non è risolutivo, e soprattutto non ha scopi collettivi, è una specie di risposta individuale del corpo».

Scivolare nel male senza averlo scelto è una prospettiva inquietante. Lo vede come un crollo o uno scivolamento graduale? Si può evitare?

«Credo sia una prospettiva che riguarda tutti, molto più di quanto ci piaccia ammettere. Ogni volta che si arresta la capacità critica, e soprattutto ogni volta che si sminuisce non per forza dichiaratamente il valore della singola vita umana, si è conniventi. Lo si è ogni volta che di fronte alla discriminazione, alla sopraffazione, alla strage ci si arrende, assuefatti o solo stremati, disillusi. Scrisse Primo Levi che il genere umano può produrre una mole infinita di dolore: "Basta non vedere, non ascoltare, non fare"».

Il testo indaga la paura della morte.

«Le assaggiatrici rischiano di morire tre volte al giorno compiendo un gesto indispensabile per sopravvivere: mangiare. Come dire che in ogni istante di vita rischiamo di morire. Per vivere dobbiamo necessariamente assaggiare il mondo, ma il mondo può avvelenarci, anzi: senza dubbio prima o poi lo farà, perché la meta è la morte, per tutti. Questa contraddizione l'istinto di sopravvivenza e insieme l'essere mortali è al cuore del romanzo e, in maniera distillata, anche della pièce, perché è al cuore delle mie ossessioni».

Quale differenza tra un romanzo e una drammaturgia?

«Ho scritto il romanzo in solitudine, mentre la pièce è il frutto di una collaborazione con il drammaturgo Gianfranco Pedullà e il regista Sandro Mabellini. Amo dello spettacolo che le due attrici in scena, Silvia Gallerano e Alessia Giangiuliani, non interpretino un personaggio, ma diano entrambe alternativamente voce a ciascuno dei personaggi.

È un'idea registica antinaturalistica, che funziona perché loro sono magnifiche. In scena c'è anche un'ottima fisarmonicista, Marlene Fuochi, che si aggira minacciosa sul palco e alla fine risucchierà tutto, come la Storia».

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