Ma che cosa pensa della scuola italiana chi l'ha frequentata con successo è che ora è un numero uno nel suo campo d'azione? E cosa dice, chi, tra i rappresentanti della cosiddetta Generazione Z (i nati a cavallo del millennio) sembra in prima fila per un percorso d'eccellenza?
LUCIANO FLORIDI. Professore di Filosofia ed Etica dell'Informazione nelle università di Oxford e Bologna.
«La scuola italiana è lontana dall'attualità, e ti porta a pensare che se sai chi è Leopardi va bene, e pazienza se ignori chi sia un matematico come Ernst Schröder o che cosa vuol dire spread. E poi, sfatiamo un mito: si dice che il liceo classico sia formativo, ma non può esserlo nella misura in cui non contano granché la matematica e la biologia. Sin da subito andrebbe insegnato l'amore per tutto il sapere».
FRANCESCA GINO. Docente di management alla Harvard Business School
«Io ho avuto la fortuna di trovare tanti docenti capaci di accendere la curiosità stimolando il senso della scoperta. Nel mondo americano la pressione è tale che non c'è spazio per questo tipo di approccio. Però confesso che da studentessa non avevo percepito che le scienze continuano ad evolversi, così come non mi era chiaro che se uno è interessato può contribuire a tale evoluzione. Negli Usa la conoscenza non viene percepita come un qualcosa che ricevi passivamente, ti spronano semmai a dare il tuo contributo per farla crescere. Questo in Italia non accade».
ALBERTO DALMASSO. Fondatore di Satispay, società che ha innovato il mercato dei pagamenti digitali.
«Trovo due pecche nella scuola italiana. Le scuole superiori dovrebbero durare non più di quattro anni come all'estero, per evitare di confrontarci immancabilmente con colleghi stranieri più giovani e con più esperienza. Poi bisognerebbe instillare ai ragazzi più fiducia nelle proprie capacità: si tende a passare il concetto che devi ringraziare il cielo se ti concederanno uno stage, tra l'altro gratuito».
CLAUDIO MARAZZINI. Presidente dell'Accademia della Crusca.
«Oggi si vorrebbe affidare alla scuola la soluzione di ogni tipo di problema, dall'educazione sessuale, alla lotta alla droga, alla buona creanza o che so io. Troppe cose, troppi compiti, e spesso confusi e nebulosi. La didattica non può essere annegata nell'universo della socializzazione globale».
LORENZO RUSSOTTO. Ultimo anno al Liceo Scientifico «Bérard» di Aosta, che ha appena superato i test per entrare in otto università americane e inglesi, tra cui Harvard (che ha finito per scegliere).
«Le conoscenze e le competenze accumulate al liceo hanno pesato per il 70% sull'esito finale dei miei test. Ero ben preparato in matematica e fisica e questo conferma anche che non mancano i docenti virtuosi. Del percorso di studi italiano non ho apprezzato una cosa: la scarsa esperienza pratica in laboratorio».
MATTEO MAZZOLARI, 26 anni. Un piede nella Silicon Valley e a Cremona dove ha lanciato la start up Fees (finanza).
«Il divario tra studio e mondo del lavoro è immenso. Progetti di gruppo, laboratori e tirocini sono affrontati troppo superficialmente sia dagli studenti sia dalle stesse scuole e università, vengono letti come obblighi burocratici anziché momenti di produttività. C'è troppa teoria.
Semplificando: è più facile capire come andare in bicicletta seguendo i giusti consigli e pedalando anziché studiando prima per filo e per segno la cinematica. La pratica non sostituisce la teoria, ma si deve meglio integrare con essa. Così, magari, eviteremmo di avere tutti quei laureati con lode che restano però disoccupati e che non sono educati al problem solving».
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