Si può essere eroi controvoglia. Ma contro il destino inutile avere un alibi. «Se qualcuno mi dicesse: firma e quel giorno eri da un altra arte, lo farei all'istante». Quel giorno è il 20 febbraio 2020 e quel posto l'ospedale di Codogno. E lei, Annalisa Melara, è l'anestesista che davanti a quel giovanee uomo coi polmoni allo sbando ebbe l'intuizione che potesse essere contagiato da quel virus che in quel momento imprevisto. «Non andai contro i protocolli, andai oltre essi». Quel tampone deciso d'impulso ha cambiato la nostra storia. E anche quella di Annalisa, che senza bagaglio si imbarcò per l'esperienza più traumatica della sua vita.
Coraggio? Incoscienza?
«So che mi dissi: facciamolo, questo tampone. Ma non immaginavo che avrei suscitato tutta questa attenzione. Pensai anche: che cavolo ho combinato, mi sono infilata in un vespaio... Per fortuna avevo ragione».
E per premio ha preso a dormire due ore per notte.
«Ma magari, il primo mese e mezzo non si dormiva mai, turni interminabili, il giorno uguale alla notte. Ho lavorato sempre, senza saltare un giorno. Per fortuna non mi sono ammalata, non ci siamo ammalati. Il nostro contatto con il paziente uno prima del tampone fu relativamente breve, al massimo un'ora, dopo abbiamo indossato tutti i Dpi».
Che rapporti ha con Mattia, il paziente numero uno?
«Siamo legati, abbiamo la stessa età, con la moglie, con la mamma abbiamo vissuto ore intensissime, anche se da punti di vista diversi».
In questo ultimo anno è cambiato tutto per lei. Premi, onorificenze, un libro...
«È stato impegnativo rivivere un evento tanto forte a distanza di così poco tempo, per mesi non ho trovato la forza di rileggere i primi capitoli».
Le nei panni dell'eroina non si trova a suo agio.
«No ma all'inizio c'era il bisogno di trovare dei punti di riferimento che dessero coraggio. L'eroe per me è chi ha una forza sovrumana, che non sente fatica e dolore. Noi la fatica l'abbiamo sentita tutta, la paura pure, il peso di quello che abbiamo vissuto è stato fortissimo. Siamo state persone normali che hanno dato tutto in circostanze drammatiche. Senza la nostra professionalità tanti sarebbero morti».
Neanche voi sapevate che cosa stesse accadendo...
«Sembrava l'inizio della fine del mondo, avevamo le corsie piene di pazienti intubati che non mostravano il minimo segno di miglioramento. Mi dicevo: ma come, faccio tutto quello che posso per guarirli e non ci riesco. Solo dopo si è capito che la progressione di questa malattia è lentissima, i pazienti te li ritrovi lì davanti tra la vita e la morte per settimane».
Tanti medici morti di Covid. Pedaggio inevitabile?
«All'inizio credo che abbia giocato un ruolo drammaticamente fondamentale la mancanza di informazioni soprattutto per i medici di base. Poi c'è stata la stanchezza, dopo turni massacranti di lavoro, mettere e togliere i Dpi in modo corretto non è semplicissimo, fai un errore e ti contagi».
Un momento di felicità...
«Due: quando abbiamo iniziato a estubare i primi pazienti, capendo che se tenevamo duro ce la facevano a salvarli. E quando ho riabbracciato metaforicamente uno dei miei colleghi rianimatori tornato al lavoro dopo la malattia».
...e uno di orgoglio.
«Quando mi sono resa conto che quella mia diagnosi è stata in qualche modo la chiave di volta per capire che il virus era tra noi, ho pensato che forse ero stata brava...».
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