Qualche giorno fa mi ha mandato una mail così: «Ci eravamo ripromessi di vederci. Se ti va acceleriamo i tempi, non avere troppa fiducia nella mia sopravvivenza perché nel frattempo, senza quasi che me ne accorgessi, ho compiuto gli orrendi ottant’anni».
Massimo Fini, il ribelle, l’anticonformista, ha compiuto ottant’anni, e nel salotto della sua casa a Milano – una casa piena di libri, con la vista su quel che una volta erano le Varesine, poi un luna park, quindi un bosco e infine una selva di grattacieli che non gli piacciono per nulla – conferma che gli ottanta sono un traguardo orrendo. «Non pensavo di raggiungerli, con la vita sciamannata che ho fatto. Ma neanche lo desideravo».
Preferivi morire giovane?
«La vecchiaia e il futuro mi hanno sempre fatto un indicibile orrore. Menandro diceva: caro agli dèi è chi muore giovane. Lo correggo: caro agli dèi è chi non è mai nato».
Pessimista?
«Realista. Poi c’è la sfiga finiana. Ad esempio, stasera volevamo andare a cena al ristorante pugliese e abbiamo scoperto ora che è chiuso per lutto. Nel pomeriggio mi si è guastata Sky e non posso vedere le partite».
Hai appena scritto un libro che s’intitola Cieco. Dunque ci vedi ancora?
«Molto poco. Una segretaria mi legge i giornali e mi scrive gli articoli che le detto. Ma, paradossalmente, uno schermo retroilluminato mi aiuta. Così, un po’ di tv riesco a vederla».
Gli ottant’anni sono così brutti come te li immaginavi?
«Sì. L’unico modo per vivere la vecchiaia è accettarla. E io non ce la fo. Mio cognato Giovannino diceva: ho visto allo specchio il volto di un vecchio; devo essere pazzo, io sono solo un ragazzo».
Ragazzo è il titolo di un tuo libro di vent’anni fa. Il sottotitolo era però Storia di una vecchiaia.
«Avevo sessant’anni e la mia ex moglie mi disse: troppo presto per scrivere un libro sulla vecchiaia. Le risposi: meglio che lo faccia adesso che sono ancora lucido».
Gli acciacchi ti tormentano?
«Gli acciacchi sono inevitabili, ma la cosa peggiore è che non hai una prospettiva: né professionale né esistenziale. Piero Ottone scrisse un libro sulla vecchiaia felice, raccontò di un viaggio in barca con un suo nipotino e del pensiero che a un certo punto lo assalì: quante volte ancora potrò vivere quello che sto vivendo ora? Il pensiero della morte si era insinuato».
Ma non dovrebbe scocciarti il non esserci più, se pensi che caro agli dèi sia chi non è mai nato.
«Non è tanto il non esserci più, quanto la malattia che ti porta alla morte, e che ti può ridurre in condizioni orrende».
Hai detto che la tua vita è divisa in due parti.
«Sì. Quando ci vedevo e quando ho cominciato a non vederci più. Prima viaggiavo, raccontavo, ho fatto reportage dal Sudafrica, dalla vecchia cara Unione Sovietica... Stavo in un Paese venti o trenta giorni e mi occupavo solo di quello. Adesso devo occuparmi della vita italiana. Cose miserrime».
Amici?
«Di recente, poco prima che morisse, era venuto a trovarmi Ugo Intini. Lui è stato un grande amico. Fu lui a inventarmi editorialista, quando era direttore del Lavoro di Genova».
Avevi già lavorato con lui all’Avanti!, no?
«Sì, quello dell’Avanti! è stato un periodo felicissimo. Era un ambiente libertario, in cui mi trovavo benissimo».
Eri iscritto al partito?
«No. E infatti mi domandai come mai mi avessero assunto. C’erano due scuole di pensiero. La prima era che le varie correnti del partito si fossero paralizzate da sole con i loro veti incrociati su chi dovesse essere assunto, e quindi alla fine spuntai io come outsider. La seconda, alla quale preferisco credere, è che io avessi lavorato bene da collaboratore e li avessi convinti a prendermi».
Ti ricordi l’ultimo pezzo da collaboratore, quello che convinse il direttore ad assumerti?
«Avevo scritto la storia di due amici che vanno al casinò e si suicidano. C’erano in ballo due temi, il gioco e l’omosessualità, che sono molto nelle mie corde».
L’omosessualità?
«Girano tre storie metropolitane sul mio conto: 1) che sono misogino; 2) che sono omosessuale; 3) che sono un tombeur de femmes. Nessuna di queste tre definizioni è vera. Ma in ciascuna di esse c’è un pizzico di vero».
Torniamo ai tuoi esordi. Il giornalismo era il tuo sogno?
«No. Non volevo fare il giornalista perché mio padre, Benso Fini, era stato direttore del Corriere Lombardo e non volevo passare per figlio di papà. Anche se quando mi laureai in giurisprudenza mio padre era già morto da sette anni».
Come finisti nei giornali?
«Volevo fare il magistrato ed ero andato a Roma per il concorso. Che era palesemente truccato. Ci accorgemmo, io e alcuni altri candidati, che qualcuno sapeva già il tema dell’esame. Decidemmo di fare casino denunciando la cosa ai giornali. Tornati a Milano, andai a cercare i vecchi amici di mio padre. Gaetano Afeltra mi fece aspettare per ore e poi non pubblicò nulla. Al Corriere ci dissero di scrivere una lettera, poi la pubblicarono facendoci passare per dei cretini. All’Avanti! trovai Intini che mi disse: interessa, ma siamo in pochi, scrivila tu. Così diventai giornalista».
Il tuo primo lavoro però fu in Pirelli.
«Fui assunto all’ufficio stampa, ma non ero adatto alle pubbliche relazioni. Con Claudio Serra scrivevo testi per la pubblicità che furono notati anche da Camilla Cederna. Ma era un lavoro che non mi piaceva. Dopo un anno e nove mesi me ne andai. Ma, ripensandoci dopo, ho capito che in Pirelli c’era uno stile antico, di quando le aziende non erano ancora dei manager ma dei padroni».
Perché?
«Per dimettermi avevo scritto una lettera insolente. Fui convocato da Franco Brambilla, amministratore delegato e cognato di Leopoldo Pirelli. Appena entrato nel suo ufficio, lui mi disse: caffè o whisky? Whisky naturalmente, risposi. Brindammo alle mie dimissioni. Alla fine mi fece un discorso molto bello: capisco che la Pirelli non è per lei, ma è un ragazzo intelligente e troverà la sua strada. Altra classe».
Rispetto a chi?
«Ad esempio alla Rcs quando mi mandò via dall’Europeo. Mi offrirono un sacco di soldi perché togliessi il disturbo con una lettera di dimissioni. Rifiutai. Dissi che dovevano prendersi loro la responsabilità di mandarmi via».
Un sacco di soldi quanto?
«150 milioni di lire. Mi mangiai le mani, dopo. Ma telefonai a Vittorio Feltri, che dirigeva il Giornale, e gli dissi: vuoi sapere com’è oggi il clima alla Rizzoli Corriere della Sera? Mi fece scrivere due pagine intere. Ogni riga sarebbe stata da querela, se non fosse stato tutto vero. Ma posso dirti un’altra cosa sulla sfiga finiana?».
Certo.
«Più che il magistrato, avrei voluto fare il calciatore. Ero in una squadra di C, ho giocato anche due partite in Prima squadra, non solo nella Primavera. Ma naturalmente mi ruppi un ginocchio, e addio».
In che ruolo giocavi?
«Libero».
Non avevo dubbi.
«Mi dispiacque molto smettere. Sono un solitario e gli unici posti in cui sono stato bene in compagnia sono gli spogliatoi del calcio e il teatro».
A teatro hai avuto successo con Cyrano.
«Doveva essere uno spettacolo televisivo per la Rai. Provavamo in corso Sempione. Marano, il direttore di Raidue, disse a Eduardo Fiorillo, il regista, che lo spettacolo andava bene, ma bisognava eliminare Massimo Fini».
E tu come reagisti?
«Andai da Marano con Fiorillo a chiedere spiegazioni. Lui fu onesto. Mi disse: potrei sostenere che non buca il video, ma la verità è che su di lei c’è un veto aziendale, che parte da un politico molto in alto».
Chi era?
«Berlusconi».
Il tuo grande nemico.
«Di Berlusconi non mi piaceva niente. Anche se quella sua patetica illusione dell’eterna giovinezza, adesso che sono vecchio, me lo fa diventare quasi simpatico. Comunque da un male nacque un bene, perché Fiorillo cambiò Cyrano e lo portò a teatro. Fu un grande successo. Cyrano era diventato il Fini-pensiero».
E qual è il Fini-pensiero?
«È sostenere che i secoli bui non sono quelli che vengono chiamati così ma questi ultimi».
Sei di sinistra o di destra?
«Resto un socialista libertario. Comunista mai. Il comunismo è destinato sempre a trasformarsi in uno stato di polizia. Lo dimostra l’avventura di Che Guevara: un medico argentino che va a combattere per la libertà di Cuba e poi, quando vede che Castro prende una deriva autoritaria, va a combattere senza speranza in Bolivia. Il Che è un eroe romantico. Il secondo nella classifica dei miei eroi».
Chi è il primo?
«Catilina. Terzo il mullah Omar. Quarto Trockij».
Hai detto che sei un socialista libertario. Quindi sei di sinistra?
«Lo sarei se la sinistra fosse il socialismo libertario».
Con la destra che rapporti hai?
«Con la destra non ho niente a che fare. Ma la mia opera è stata sempre apprezzata solo a destra. Anche dai giornali di Berlusconi: nel 2020 il Giornale fece una pagina sui 35 anni da La Ragione aveva Torto?. Se fosse per la sinistra, io non sarei esistito culturalmente in questo Paese».
Come te lo spieghi?
«Lo spiego con il fatto che la destra è più attenta all’individuo. Per la sinistra o sei dei loro, o non sei. E io non sono dei loro. Giorgio Bocca mi definì un anarcoide, un russo mezzo pazzo».
Ti riconosci in questa definizione?
«Completamente. Anche nell’essere russo. Molto più che nell’essere italiano. Il russo è tutto e il contrario di tutto: malinconico, generoso, avido, bugiardo, sempre eccessivo, nel bene e nel male. Ma non ha il cinismo andreottian-romano degli italiani».
Tua madre, Zinaide Tubiasz, era russa.
«Classe 1908. Era bambina quando arrivò la rivoluzione. La sua era una famiglia di possidenti terrieri che perse tutto. Nel 1922 arrivò una terribile carestia e lasciarono la Russia per la Lituania. Da lì mia madre si trasferì a Parigi, dove si iscrisse alla Sorbona mantenendosi come dattilografa in un negozio di biciclette. A Parigi incontrò mio padre, che era in fuga dal fascismo e sotto falso nome collaborava col Corriere sotto il corrispondente francese del quotidiano, Paolo Monelli».
Amore a prima vista?
«No. Come tutti i grandi amori cominciò con un reciproco disprezzo. Al primo incontro lei pensò: io, con quell’italiano scheletrico, mai. E lui: io, con quella che fuma con un bocchino lungo mezzo metro, mai. Infatti si sposarono. Hanno vissuto quella Parigi meravigliosa degli anni Trenta, frequentando gli intellettuali e gli artisti, che erano poveri come loro. A Parigi nacque, nel 1935, mia sorella Anna. I miei vennero in Italia nel 1940, dopo che Mussolini aveva dichiarato guerra alla Francia. Rischiarono, perché mio padre era un antifascista e mia madre era ebrea».
Che donna era tua madre?
«Aveva una scorza dura perché con lei era stata dura la vita. Era anaffettiva: e per tutta la vita io ho sempre incrociato donne anaffettive».
Tuo padre?
«Un cattolico liberale. Tornato in Italia, lavorò come caporedattore al Corriere della Sera, dove partecipò a quel minimo di resistenza che ci fu in via Solferino. Quando arrivarono gli americani, il Corriere sospese le pubblicazioni e lasciò il posto al neonato Giornale Lombardo, dove con mio padre c’erano Gaetano Afeltra, Dino Buzzati e Bruno Fallaci, lo zio di Oriana. Quando riaprì il Corriere della Sera ci tornarono tutti tranne mio padre, che diventò direttore del giornale, che nel frattempo aveva cambiato nome in Corriere Lombardo».
Che giornale era?
«Usciva al pomeriggio e lo chiamavano “il Bombardo” perché faceva titoloni e pubblicava foto di donne discinte: roba che oggi sarebbe da educande. Mio padre fu direttore per sedici anni, morì di crepacuore quando dovette lasciare la sua creatura».
Tu dopo l’Avanti! sei stato all’Europeo.
«Con Tommaso Giglio. Uomo anche inquietante, un po’ mitomane: pensava che quello che usciva sull’Europeo dovesse essere considerato da tutti come la verità assoluta. Grande direttore, però. All’Europeo sono andato via e tornato più volte. In uno di quei periodi diciamo di vacanza, ho fondato con Aldo Canale un mensile bellissimo che si chiamava Pagina. Ci scrivevano alcuni ragazzi che avrebbero fatto strada: Pigi Battista, Giuliano Ferrara, Ernesto Galli della Loggia. Anche Giampiero Mughini, che però era già affermato».
Qual è il giornale in cui ti sei trovato meglio?
«Il Giorno di Guglielmo Zucconi e Pierluigi Magnaschi. Era dell’Eni, quindi dei partiti: ma le cose più violente contro la partitocrazia le ho scritte lì. Avevo una libertà assoluta. Zucconi mi diceva: mi piaci Fini, perché fai casino».
Hai partecipato alla nascita di Repubblica.
«E conservo due telegrammi di complimenti di Scalfari. Ma me ne andai subito. Un ambiente radical chic che non mi piaceva. Non erano sbagliati loro: ero sbagliato io per loro».
Sei stato un grillino della prima ora.
«Ho partecipato al primo Vaffaday, a Bologna. A Grillo ho dato un sacco di consigli, tutti sbagliati: tipo distruggere i computer, che poi con Gianroberto Casaleggio sono diventati essenziali per il Movimento. Con Beppe ho ancora un ottimo rapporto. Sono stato di recente da lui a Genova e abbiamo passato una giornata bellissima».
Il Movimento Cinque Stelle ti ha deluso?
«Un colpo importante è stato la morte di Casaleggio, che era la testa del movimento. Grillo era il frontman».
Conte?
«Non mi piace. Parla come un avvocaticchio. La Meloni se lo mangia».
Ti piace Giorgia Meloni?
«Sì. La conoscevo quando ancora non era Giorgia Meloni e avevo il suo cellulare. Diventata premier, ho provato a chiamarla: sono Massimo Fini, cerco il presidente del Consiglio. Sono io, mi ha risposto. Mi ha invitato a Palazzo Chigi, abbiamo parlato di tante cose. Ha un linguaggio diritto, franco, comprensibile a tutti. E poi ci crede veramente».
Chi è stato il giornalista più grande del tuo tempo?
«Giorgio Bocca. Dopo Curzio Malaparte, che era di un’altra epoca».
Montanelli?
«Avevo un ottimo rapporto con lui. Però mi metteva soggezione. Lo chiamavo direttore. Indro aveva una scrittura eccelsa, ma era meno profondo di Bocca. E quando crollò la Prima Repubblica non capì il nuovo: né Bossi né Berlusconi. La Voce fu un fallimento. Elegante, ma un fallimento».
I bravi giornalisti di oggi?
«Premesso che non li conosco tutti perché non leggo tutti i giornali, uno che apprezzo perché è sempre sul campo è Lorenzo Cremonesi del Corriere. Anche Biloslavo e Micalessin sono molto bravi e sempre al fronte: ma troppo filoamericani per i miei gusti».
Cazzullo?
«Uno dei migliori. Poi ho grande stima di Carlo Verdelli. Del Giornale mi piacciono molto Luigi Mascheroni e Alessandro Gnocchi. Di Sallusti ho grande stima. Una volta però mi arrabbiai con lui perché disse che scrivevo sotto dettatura di Travaglio».
Lo querelasti?
«Macché querela. Lo sfidai a duello».
E come finì?
«Lui fu bravissimo: trasformò il duello in una bicchierata, che poi diventò una cena a casa sua. Quella sera a un certo punto disse alla mia compagna di allora, Chiara: Massimo ha rinunciato a dei miliardi. Chiara drizzò le orecchie: “Come, ha rinunciato a miliardi?”. “No, non si tratta di prendere mazzette, ma tu entri in un certo giro e tutto ne consegue”. Capii che parlava anche di sé stesso e la trovai un’ammissione onesta».
Abbiamo citato Travaglio.
«Gli mando i pezzi e lui li pubblica: cosa vuoi di più da un direttore? Poi capisco che Marco possa dar fastidio perché ha quell’aria da professorino che sa tutto: ma non è colpa sua se sa tutto davvero. Poi, guarda: Marco mi è stato vicino quando ho avuto periodi di crisi. Ho affetto per lui, e credo che lui ne abbia per me. Lavora come un pazzo, non so come faccia. Ma se lo prendi in un momento di quiete si scioglie, è disteso».
Che cosa diresti a un ragazzo che oggi vuol fare il giornalista?
«Che manca del primo requisito del giornalista: il fiuto. Se ce l’avesse, sentirebbe che questo mestiere è finito».
Ottant’anni, Massimo. Credi o almeno speri in un Dio, in una vita dopo la morte?
«Vado a prendere un bicchiere di bianco, poi ti rispondo».
(Torna) «Non posso credere a un Dio
onnipotente e buono. Neanche alla vita dopo la morte. Penso che tutte le religioni siano nate per lenire la paura della fine. Capisco chi si affida a questa consolazione. Ma alla favola di Dio non riesco proprio a credere».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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