“Ma come il fiore reciso che io scelsi tra mille per te, il più bello è il giovane che prima cade sul prato, per dimostrare che vivere non ha senso senza il morire, ripercorrendo il sostanziale sacrificio degli eroi…”. Così Federico Goglio, in arte Skoll, nella sua canzone dedicata a Mishima. Pochi versi, densi, che raccontano la vita del grande scrittore giapponese che si uccise con il Seppuku il 25 novembre del 1970. Ma non solo: Goglio ha scritto anche un fumetto, illustrato da Massimiliano Longo, intitolato Yukio Mishima. Ultimo samurai (Ferrogallico), che ha vinto il premio Acqui Edito e Inedito (il premio di Acqui Storia dedicato alle graphic novel). Lo abbiamo intervistato.
Perché la figura di Mishima ti ha affascinato?
Mishima è stato uno degli scrittori giapponesi più conosciuti del suo tempo in un’epoca di grandi cambiamenti sia culturali che economici. Nel suo ultimo decennio di vita, ha vissuto una costante, ma solo apparente e formale, contraddizione: da un lato si è fatto letteralmente scudo – ancor prima che spada – degli antichi valori di un Giappone perduto, sconfitto e travolto dalla dilagante modernità materialista e globalista; dall’altro ha abbracciato e cavalcato forme e strumenti tipici di quella cultura americana che avrebbe individuato come uno dei mali del Giappone. Erano forme, solo forme, che utilizzò e cavalcò per meglio diffondere quello che si potrebbe definire un tentativo di restaurazione culturale. I piani, però, erano scivolosi… Sottolineava di essere rimasto l’ultimo scrittore giapponese a scrivere romanzi in un linguaggio iper-classico ma non disegnava di recitare negli yakuza movie; componeva opere di rigoroso teatro tradizionale e si faceva protagonista di improbabili pose in moderni set fotografici; alternava parate ed esercitazioni militari con il suo Tate-no-kai (l’Associazione degli Scudi, corpo paramilitare nazionalista ed esplicitamente anti-comunista fondato da Mishima nel 1968) alle serate di gala nei ristoranti alla moda o negli ambienti della sua lussuosa villa in stile liberty di Tokyo. In un certo senso fu una vera e propria rockstar, un’icona e – nel capire così in anticipo la forza dell’immagine e delle immagini – un influencer ante litteram…
Mishima è morto nel 1970 e, almeno anagraficamente, è una figura lontana da noi. Perché parlarne ancora?
In un certo senso, per certi aspetti, la società in cui viviamo mette radici proprio nel periodo in cui Mishima sconvolge il Giappone. Mi riferisco ai movimenti del ’68 e a quel mondialismo che ne deriva e che, anni dopo, dilagherà sfruttando la famelica rivoluzione planetaria di internet. Mishima combatte il mondialismo – globalizzazione in grembo alla sinistra sessantottina – e il materialismo “occidentale” di derivazione americana. Due tendenze che finiscono per fondersi in un’unica, nuova ideologia della quale riusciamo a misurare, oggi, la portata. Mishima combatte esplicitamente, dichiaratamente, i semi e i primi germogli di quel cambiamento. È di attualità, perché vive alle origini del nostro tempo.
"La vita umana è breve ma io vorrei vivere in eterno". Così scriveva Mishima. L’ultimo samurai è davvero riuscito nella sua impresa?
Negli anni 60, in Giappone si parlava molto di Yukio Mishima e delle sue posizioni “eccentriche”. Quasi si ironizzava sul suo Tate-no-kai, sui suoi continui e molto variegati riferimenti alla morte (nei romanzi, nei film, nei servizi fotografici), sugli eccessivi richiami all’epoca antica dei samurai, sulla riscoperta di un’epica della nazione da contrapporre alla monotonia della società-fabbrica. Dopo il seppuku del 1970, nessuno ironizzò più. Mishima aveva chiuso il cerchio, dimostrando che in quegli ultimi dieci anni non aveva messo in scena una fiction, recitato una parte o costruito semplicemente un’immagine provocatoria. Pochi avevano voluto prenderlo sul serio, ignorandone un percorso lineare, sofferto ma nitido.
A Mishima hai dedicato un album e un fumetto: due linguaggi completamente diversi. Qual è il tuo obiettivo?
Ho dedicato molto tempo a Mishima ma nella scelta della forma non c’è mai stato un obiettivo particolare. Semplicemente, essendo un giornalista e un musicista, è stato naturale comporre e scrivere. La graphic novel è il mio personale e definitivo tributo all’ultimo, autentico samurai del Giappone. Nasce dall’incontro con il maestro Massimiliano Longo che con la sua straordinaria matita ha letteralmente dato vita al “mio” Mishima…
Con il fumetto su Mishima hai appena vinto il premio Acqui Edito e Inedito di quest’anno (il premio di Acqui Storia dedicato alle graphic novel). Cosa hai pensato di fronte a questa notizia?
Una grande gioia. Per me e per Massimiliano ricevere un riconoscimento così prestigioso – del tutto inaspettato – è un punto di arrivo. È il riconoscimento di un lavoro davvero lunghissimo, di uno studio appassionato. Vincere proprio con un libro su Yukio Mishima…
Il Giappone è ormai lanciato verso la modernità: il sacrificio di Mishima è stato inutile?
Io credo, sinceramente, che non esista mai un sacrificio inutile. In questo preciso momento – ma solo perché è la prima cosa che mi viene in mente tra un’infinità di esempi possibili – non staremmo nemmeno parlando di lui se non ci fosse stato il seppuku del 1970. Mishima, al di là di questo, non lottò contro la modernità “dei treni o delle automobili”… tutt’altro. Lottò contro le forze orizzontali, contro l’appiattimento materialista, contro il soffocamento della naturale esigenza degli esseri umani – una vera e propria vocazione della nostra specie – alla dimensione spirituale. Gli uomini sono fatti di materia e spirito. Oggi soffochiamo lo spirito. Il sacrificio di Mishima è la predominanza opposta.
Certamente estrema, plateale, forse fin troppo ostentata… ma “utile” – nel riprendere la domanda – a tenerci nel giusto equilibrio tra i due opposti, a bilanciare le cose, a dimostrare che oggi noi dobbiamo – non solo possiamo – stare nel mezzo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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