I sosia vanno a coppie, quindi i sosia sono duali. Sono reciproci: A è uguale ad A, che si guardi dall’una o dall’altra parte. Ma sappiamo tutti che non è proprio vero. Sappiamo che per essere il sosia di qualcuno basta metterci la faccia, sorvolando su qualche piccola differenza, e il resto lo fa la suggestione. Per non parlare, ovviamente, del Dna... A volte, per rendere più affascinante la faccenda dei sosia, scende in campo una bellissima parola greco -italiana: cronopareidolia. Già da sola, pareidolia (para, vicino o simile, ed èidolon, immagine) ci porta nel campo dell’impressione, che è soggettiva, quindi non comune a tutti, o quantomeno non immediata per tutti.
La pareidolia è un’illusione subcosciente che ci fa ricondurre a forme note ciò che è frutto del caso: le nuvole che, magari soltanto per pochi minuti o secondi, somigliano a un albero o a un cane, oppure la famosa fotografia del «Volto su Marte», cioè la formazione rocciosa marziana ripresa dalla sonda Viking 1 il 25 luglio 1976. Se poi a pareidolia anteponiamo crono (krónos, il tempo), ecco scaturire lo strano fenomeno della “scoperta” del sosia ormai defunto di una persona attualmente viva.
Forse è proprio una cronopareidolia a dare il colpo di grazia alla già malandatissima psiche di Jack Torrance nel film Shining di Stanley Kubrick tratto dal romanzo di Stephen King. Forse, aggirandosi per l’Overlook Hotel furioso come un Orlando, frustrato e fuori di testa, a un certo punto (non visto da noi spettatori) ha osservato prima che la vedessimo noi spettatori la foto di gruppo datata 4 luglio 1921 in cui compare... anche lui, o il suo sosia, una sessantina di anni prima. «La foto del ballo alla fine suggerisce la reincarnazione di Jack», bofonchiò il grande regista, poco incline a fornire spiegazioni sulle proprie opere. Torrance, impersonato dall’impareggiabile Jack Nicholson, ogni mattina si siede di fronte alla macchina per scrivere e, cercando ispirazione per il suo nuovo libro, non riesce a far di meglio che continuare a battere la stessa frase: «Troppo lavoro e niente divertimento rendono Jack un ragazzo noioso», diventata in italiano «Il mattino ha l’oro in bocca».
Per iniziare un romanzo, possono andar bene anche altre due frasi: «Quest’estate succederà qualcosa di bellissimo, me lo sento. Mi svegliai con questa frase nella testa».
Le usa l’autrice giapponese Aoyama Nanae, la quale non soltanto ha scritto La sosia; non soltanto, come vedremo, ha mutuato da King un efficace strumento narrativo; non soltanto mostra di conoscere benissimo l’effetto straniante della pareidolia e della cronopareidolia, ma omaggia anche, fino a farne il nume tutelare del suo libro, Il sosia più famoso della storia della letteratura, quel Jakòv Petrovic’ Goljadkin che, sotto le mani frenetiche e febbrili di Fëdor Michajlovic Dostoevskij, con il suo sosia (vero o frutto della sua schizofrenia? questa domanda è un lascito della genialità dell’opera) ingaggia un corpo a corpo che gli sarà fatale. Scrive infatti Aoyama: «Il mio timore era che, se mi fossi ulteriormente impegolata con la famiglia Kuki, la mia sosia avrebbe potuto essere costretta a pagare i pirozhki che avevo mangiato io. In altre parole, nella famiglia Kuki io avrei occupato la posizione del nuovo Goljadkin.
L’idea di mettere un morto innocente nella stessa triste situazione del vecchio Goljadkin mi metteva a disagio. Ma proprio perché la mia sosia non era più in questo mondo, forse era assurdo preoccuparsi».
Siamo a pagina 81 dell’edizione italiana del romanzo (Rizzoli, pagg. 389, euro 15, traduzione di Rebecca Suter) e le fondamenta della storia sono state poste, ma il resto della costruzione, labirintica e claustrofobica come un disegno di Escher, deve ancora mostrarsi.
Che cosa è accaduto fino a lì?
Tokyo, ai giorni nostri. L’io narrante, ovvero la scrittrice che si firma Suzuki Yoshiko, il cognome e il nome di sua nonna, grande narratrice di storie, ma che si chiama in realtà Enshu Ritsu (si badi: Enshu Ritsu viene pronunciato in giapponese come il termine del Pi greco, numero irrazionale e trascendente impossibile da esprimere - da scrivere - usando un numero finito di valori interi, di frazioni e di loro radici), dopo aver concesso un’intervista televisiva viene contattata dalla signora Kyoko che di cognome fa Kuki (che a sua volta si scrive con il carattere di «nove» e quello di «demoni»...), scioccata dalla straordinaria somiglianza di Ritsu con sua sorella Yuri, morta in un incidente in montagna un anno prima. Kyoko, con modi garbati ma insistenti, chiede a Ritsu di scrivere la biografia di Yuri. A nulla valgono le composte proteste dell’altra: non so nulla di sua sorella, come potrei scriverne la biografia sulla base delle poche e frammentarie informazioni che lei mi ha dato?
Inoltre, sul tavolo Kyoko mette due milioni di yen come ricompensa.
Difficile rinunciare, per una ventiquattrenne aspirante bestsellerista segnalatasi soltanto con un libro per bambini, che vive in un appartamentino affacciato su un cimitero e si mantiene dando lezioni di scrittura creativa a casalinghe sempliciotte.
Dunque, Ritsu accetta. «Tanto non vogliono che scriva la verità, ma quello che vogliono sentirsi raccontare», dice al suo amico e occasionale partner sessuale. A convincerla è soprattutto l’infantile curiosità di Sara, la bambina di Kyoko e del suo bellissimo marito Seiji, che non le è per nulla indifferente. Dopo aver iniziato la biografia di Yuri, Ritsu si sente con «un piede in un passato che non era mai esistito, e l’altro ancora sospeso in aria (...
) l’atto della scrittura era il movimento dei miei piedi fluttuanti che danzavano nell’aria senza trovare alcun appoggio solido». Un duro e pericoloso lavoro, come edificare una casa sulla sabbia. «Ogni volta che la chiamavo per nome, che le davo del tu, Yuri veniva sempre più invasa da me, dalla mia personalità, dalla mia immaginazione». Accade lo stesso al «nostro eroe» Jakòv Petrovic’ Goljadkin quando si confronta con il «Jakòv Petrovic’ Goljadkin numero due», nonostante nel romanzo di Dostoevskij la paternità dell’identità sia sua, mentre Ritsu viene dopo Yuri, per riportarla, almeno parzialmente, in vita.
Le vicende, tra l’avventuroso e il congetturale, in cui seguiamo Ritsu raggiungono l’acme quando, come accennavamo, Aoyama prende in prestito da Stephen King l’idea portante di Misery, con Kyoko emula della terribile Annie Wilkes, pur senza lasciare sul corpo della sua schiava (e insieme padrona) alcun segno di violenza. E le parole con cui l’Autrice abbassa il sipario sulla prigionia di Ritsu sono le stesse con cui il romanzo si è aperto. Infatti la prigioniera Ritsu (prigioniera come Albertine è La prigioniera di Proust e del suo Narratore) prende la matita e scrive: «Quest’estate succederà qualcosa di bellissimo, me lo sento. Mi svegliai con questa frase nella testa».
Ma non finisce qui, c’è il secondo atto, che è come un secondo, breve, romanzo. Dal sistema binario sosia 1-sosia 2 si passa, per altre quaranta intensissime pagine, ai molteplici punti di vista sulla vita di Yuri.
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