Bastano poche righe, talvolta un incipit, per capire di essere al cospetto di un grande scrittore. Ivo Andric un grande scrittore certamente è, non perché abbia avuto il premio Nobel per la Letteratura nel 1961, quando l’assegnazione veniva fatta per meriti conclamati e quasi universalmente riconosciuti e non per scelte politiche di comodo o, addirittura, per il narcisismo avventuroso del comitato giudicante. L’opera del maestro bosniaco non è numericamente ricca quanto significativa sul piano letterario e storico-sociale. Per di più, ha il merito di aver portato sulla cartina culturale di un’Europa un po’ snob e ancorata a un certo elitismo mitteleuropeo lo spirito dell’allora Jugoslavia e, in particolare, della Bosnia.
Andric è noto soprattutto per il romanzo Il ponte sulla Drina, un affresco meraviglioso che, attraverso una serie concatenata di eventi svoltisi intorno al ponte di Mehmed Paša Sokolovic di Višegrad, nella Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, descrive la parabola di un popolo, dal XVI secolo alla Grande Guerra. Il ponte, oggi patrimonio dell’umanità, è una metafora delle alterne fortune della martoriata terra di Bosnia: in parte distrutto durante la Prima e di nuovo durante la Seconda guerra, è stato teatro di combattimenti durante la guerra civile, culminati in un eccidio ai danni dei civili nel ’92.
Naturalmente, a questi ultimi eventi Andric (nato nel 1892 a Travnik e morto a Belgrado nel 1975) non ha assistito, ma la sua profonda conoscenza delle questioni locali e internazionali (anche frutto delle sue esperienze di diplomatico) gli avrà insinuato il cocente dubbio di un futuro poco roseo per la sua gente. Le fosche nubi che si sarebbero trasformate in tempeste sono descritte ne Il ponte sulla Drina e l’intera opera di Andric ne è permeata. La stessa cosa vale per Il caso di Stevan Karajan (Bottega Errante Edizioni, pagg 183, euro 17, traduzione di Alice Parmeggiani), una raccolta di racconti di un autore «ingiustamente considerato minore» – come sottolinea Božidar Stanišic nella postfazione- che fa del tema dell’ingiustizia uno dei cardini della sua poetica. Non a caso è sempre stato al centro delle opere di Andric, dalla dominazione ottomana a quella austroungarica e, se avesse vissuto più a lungo, forse avrebbe trovato posto in riflessioni sulla Jugoslavia del dopo-Tito.
Stevan Karajan, protagonista del primo racconto, è una persona arida, priva di empatia per le sofferenze altrui, unicamente interessata al proprio tornaconto economico, poco propensa persino a prestare ascolto alle esigenze di una moglie la cui stupidità era emersa «già durante il breve fidanzamento». Andric, da grande scrittore, come si diceva è un precursore e affronta senza tentennamenti tematiche imbarazzanti, quando non veri e propri tabù. Nella fattoria statale, racconto del 1959, non ha nulla di bucolico e mette a confronto le figure di un vecchio e autoritario guardiano dei frutteti e del suo giovane aiutante, forte e ingenuo. Senza giri di parole, ma mantenendosi in sapiente equilibrio tra spietatezza e delicatezza, Andric tratteggia lo stato d’animo del giovane di fronte all’accusa infamante di pedofilia che il vecchio gli muove. Il peso della storia Andric lo ha sempre avvertito con forza e La porta chiusa risente del clima di «paura, preoccupazione e depressione» di fine agosto 1941, subito dopo l’invasione tedesca della Jugoslavia.
La raccolta Il caso di Stevan Karajan, come quasi tutta l’opera di Andric, si muove sul filo sottilissimo che separa realtà ed esperienza onirica. Il racconto L’inferno (1926) si apre così: «Quando iniziò la primavera, il console si ammalò di sogni». Chiude lo splendido Storia del servo Siman (1948).
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