Lettere jazz dalla guerra per il piano di Iyer

Vijay Iyer è considerato, a pari merito con Brad Mehldau, il migliore pianista di jazz al di sotto dei quarant'anni. E' nato nel 1971 da genitori indiani a Rochester (New York), ed è quindi un po' più giovane di Mehldau che compie 40 anni il prossimo agosto. Suona domani alle 11 al Teatro Manzoni per Aperitivo in Concerto con Mike Ladd voce e sintetizzatore analogico, e con l'ensemble che allinea Pamela Z e Guillermo Brown voci e live electronics, Liberty Ellman chitarra, Okkyung Lee violoncello e Kassa Overall percussioni. Iyer è già stato ospite di Aperitivo in Concerto, ma in una posizione di sideman che non gli ha permesso di mostrare tutto il suo valore. Questa volta ci si attende un esito ben più importante perché Iyer, insieme con un raffinato esponente dell'hip hop quale Mike Ladd, si presenta in veste di compositore e di protagonista-esecutore della prima assoluta di Holding It Down. E' un'opera strumentale e vocale nata da una domanda che i due autori, Iyer e Ladd, si sono posti: quali siano i sogni e la posizione psicologica dei giovani reduci afro-americani della guerra in Iraq e in Afghanistan. Per avere la risposta, hanno raccolto centinaia di interviste realizzate con militari ritornati in patria e le loro lettere, e «ne hanno ricavato una fitta trama di immagini, versi, echi e ricordi che costituisce il canovaccio di Holding It Down» e che li ha edotti, appunto, di ciò che significa per dei soldati afro-americani «passare dalla complessità della società statunitense al mondo della guerra, per poi fare ritorno in patria in un clima di indifferenza aggravato, da una burocrazia ottusa e da una crisi economica che ha colpito soprattutto le classi medio-basse». Queste sono le informazioni che si leggono nella brochure di sala del concerto, senz'altro uno dei più attesi della stagione di Aperitivo. Vijay Iyer è personaggio singolare, di vasta cultura, laureato in fisica e musicologo pur essendo, come pianista, pressoché autodidatta in una fase come l'attuale, in cui nel jazz i self-made men non esistono quasi più, perlomeno ai livelli più alti. Si è imposto all'attenzione internazionale dopo un lungo sodalizio con il sassofonista e direttore Steve Coleman, le collaborazioni con Leo Wadada Smith, Butch Morris, Roscoe Mitchell, George Lewis e una notevole quantità di dischi a suo nome: tredici, per essere precisi, e tutti di notevole spessore. Questi cd hanno messo in luce la cifra stilistica di Iyer che è in grado di sintetizzare influssi americani, europei, africani e orientali, sollecitati dalla frequente presenza, accanto a lui, del sassofonista Rudresh Mahanthappa, un altro eccellente solista amerindiano (ma nato a Trieste!), suo coetaneo. E' il caso di dire, con calcolata vis polemica, che tali sintesi sono reali, sono avvertibili da chi abbia buone orecchie e derivano ovviamente dalle radici ataviche e dal vissuto di Iyer. Pertanto non hanno nulla in comune con diagnosi analoghe che oggi taluni scrivono anche a proposito di musicisti sprovveduti. Cionondimeno, nel nostro Paese Iyer si è fatto largo in ritardo per via di cattive distribuzioni discografiche e di negligenze che è giusto ammettere. Soltanto il suo ultimo cd, Historicity per Act, distribuito in Italia da Egea, ha avuto finalmente l'effetto di un masso caduto in uno stagno. Iyer è in trio con Stephen Crump contrabbasso e Marcus Gilmore batteria. Per capire lo spessore del risultato giova ricorrere a qualche riga di una magnifica recensione che gli ha dedicato Enrico Bettinello: «Eravamo rassegnati che nessun disco di piano trio ci avrebbe mai più colpito, specie dopo decenni di imitazioni di Bill Evans e di Keith Jarrett (…). Ma ecco che giunge Vijay Iyer a sparigliare tutto.

Un disco in trio così bello non lo sentivamo da tempo (…): si tratta di una straordinaria lezione di “radici rivolte al futuro“ che, venendo da un artista multiculturale, assume un significato ancora più pregnante». Perfetto.

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