Ma la libertà non è mai uno «strappo»

Luciano Lanna interviene sul tema lanciato dall’articolo di Geminello Alvi

Ha ragione l’amico Geminello Alvi: la politica si accorge sempre troppo tardi di quanto accade. Ed è una considerazione che vale soprattutto per la destra, la parte politico-culturale che quantomeno dalla caduta del Muro dovrebbe avere il vento della storia tutto dalla propria parte. «L’anticomunismo basta - aggiunge ancora Alvi - per vincere le elezioni; per governare e rifare la nazione urge invece un apparato mitico alla Sorel». È un’analisi completamente condivisibile, soprattutto in un momento in cui, mentre tutte le condizioni lasciano delineare il blocco sociale maggioritario nel Paese tutto contrapposto alle sinistre, una certa destra si allontana dal rappresentarlo declinandosi attraverso una sua presunta vocazione «conservatrice». Quanto, invece, sarebbe tutto diverso - rileva Alvi - se la destra si ancorasse, come dovrebbe per suo Dna, «al pensiero libertario e solidale»!
Eppure, ogni qualvolta da destra si cerca di dare segnali in questo senso scatta la demonizzazione. C’è sempre qualcuno che tende a enfatizzare tutti i passaggi e le prese di posizione pubbliche della destra con il ricorso al termine «strappo». Che è stato utilizzato per la sottolineatura a Fiuggi - nel congresso di fondazione di An - dei principi di libertà e democrazia. La cosa si è ripetuta per la proposta legislativa, nell’autunno del 2003, tesa a estendere il diritto di voto amministrativo agli immigrati regolari. E ancora: per il rifiuto dell’islamofobia e il «sì» all’insegnamento del Corano nelle scuole italiane per i ragazzi di fede musulmana, per alcune posizioni sul tema dei diritti civili... L’impressione è che ogni qualvolta An esprima una posizione non conservatrice, si parla di «strappo», mentre invece quella o quell’altra scelta rimandano alla vocazione inscritta nel fare politica.
Ma è su questo che la destra può interpretare il suo «rifiuto di ogni costruttivismo ideologico» cui fa riferimento Alvi. E in questa prospettiva può spiegarsi il senso di una sua declinazione e connotazione in senso «libertario», nel senso di una consapevole scelta di campo in direzione della «libertà». «Può esistere un’altra destra?», si chiedeva qualche mese fa Filippo Facci, tentando di sottolineare la deriva neo-qualunquistica di cui, in certi ambiti, è affetta l’immagine della coalizione che nell’Italia bipolare si contrappone alla sinistra. «C’è uno spazio serio - si domandava Facci - a destra per i distinguo? C’è spazio per chi non reputi la Fallaci un vertice della cultura occidentale? C’è spazio per i garantisti di vecchio stampo? C’è spazio per chi non si sdrai sulle battaglie conservatrici sulla famiglia, sulle coppie di fatto, terrorismo e radici cristiane? C’è spazio per chi sia disposto a riconoscere un pur minimale fondamento a certe questioni ambientaliste?».


E aggiungeremmo noi: c’è spazio per un’impostazione della politica che non si basi sulla demonizzazione del fronte contrapposto ma che - sulla base dell’assunzione di una storia nazionale condivisa e di un condiviso immaginario esistenziale e generazionale - delinei la dialettica politica come il confronto tra due diversi progetti di riformismo? Sì, può esistere un’altra destra, a patto che i soggetti politici e culturali che a destra si collocano siano se stessi con tutte le proprie potenzialità. A quel punto non si parlerebbe più di «strappi», ma di senso di responsabilità politica. E a beneficiarne sarebbe tutta la politica italiana.

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