Sul posto di lavoro arriva il quiet quitting: che cos'è e cosa comporta

Fare il minimo indispensabile al lavoro ha un nome: si chiama quiet quitting e può essere sinonimo di un malessere sul posto di lavoro

Sul posto di lavoro arriva il quiet quitting: che cos'è e cosa comporta

Si chiama quiet quitting. Forse qualcuno ne è affetto ma non sa dargli un nome. Non si tratta di una malattia ma di uno stato di essere relativo al mondo del lavoro: significa fare il minimo indispensabile in ambito lavorativo. A darne una definizione è l'Ansa.

Quiet quitting, un gioco di parole dal significato profondo, che dovrebbe far riflettere sulla società odierna. Volendo tradurre letteralmente il quiet quitting potrebbe essere reso in italiano come un silenzioso lasciar andare. È come uno smettere in parte di lavorare senza farsi notare. In sostanza, significa fare lo stretto necessario sul lavoro, il minimo sindacale. Non vuol dire non fare il proprio lavoro ma limitarsi soltanto a svolgere il minimo nelle proprie mansioni. Fino a qui, niente di nuovo sotto il sole. Certamente c'è sempre stato chi si è limitato a fare lo stretto indispensabile al lavoro, senza regalare tempo e senza fare qualcosa di gradito ma non richiesto. La novità sta nel fatto che questo comportamento sta diventando oggi una sorta di epidemia tra i lavoratori. Il motivo potrebbe essere il fatto di considerare il proprio lavoro troppo comune e poco stimolante. Potrebbe sembrare un controsenso, in un'Italia in cerca di occupazione.

Forse si tratta di un moto di ribellione, una sorta di protesta, uno Sturm und Drang lavorativo, oppure di un sintomo di insoddisfazione sul posto di lavoro, oppure di entrambe le cose. Certo è che il quiet quitting si starebbe diffondendo a macchia d'olio in questo momento storico. Resta da chiedersi il perché.

Potrebbe essere una reazione al cosiddetto workaholism, cioè il super lavoro. Ecco dunque il passaggio dall'essere un workaholic, cioè uno stacanovista o un maniaco del lavoro, al quiet quitter, il lavoratore che fa il minimo indispensabile, nulla più del dovuto. La motivazione alla base potrebbe riguardare i rischi per la salute dovuti al troppo lavoro, al fine di salvaguardare la propria salute fisica ed emotiva. Come suggerisce l'Ansa, secondo una ricerca di TherapyChat in collaborazione con Ipsos, infatti, la condizione lavorativa influenzerebbe il benessere psicologico per il 46 per cento dei lavoratori.

Se l'antico detto recita "primum vivere deinde philosophari", oggi si potrebbe trasformare nell'italiano "prima vivere, poi lavorare". Forse è stato proprio il lockdown causato dalla pandemia da Covid-19 a far riflettere tanta gente sulla propria vita. Tante persone hanno potuto riassaporare una tranquilla situazione casalinga, guardare con occhio diverso alle attività da svolgere nel tempo libero e ai rapporti sociali.

A metterci lo zampino è stato anche lo smart working, il lavoro da casa. Stare nel comfort della propria abitazione dovendo dedicare più tempo al lavoro che alla cura della propria casa e di se stessi può aver avuto il suo peso. Oltre questo, il quiet quitting potrebbe trarre la propria origine da un lavoro insoddisfacente o poco stimolante. L'orgine potrebbe essere anche una situazione negativa sul posto di lavoro o ancora un basso salario. O magari tutte queste ragioni sono alla base di un comportamento anti-produttivo sul lavoro.

Il lavoratore potrebbe infatti disaffezionarsi all'azienda o al lavoro in sé a causa di un clima aziendale negativo o scarsamente coinvolgente. Il quite quitting può provenire anche dalla sensazione di non sentirsi valutati abbastanza. Nascerebbero così assenteisti e lavoratori che commettono numerosi errori. Una persona gratificata e orgogliosa del proprio lavoro tenderebbe invece a identificarsi con esso.

Il contrario del quite quitting è il job creep o work creep cioè quello che potrebbe essere chiamato in italiano lavoro strisciante. Come spiega Il Giorno, si tratta del lavorare oltre orario e assumersi più responsabilità di quelle legate alla propria mansione. Vuol dire restare sempre connessi con il lavoro attraverso smartphone, tablet, portatile o PC, senza però aver ricevuto un aumento di stipendio e nemmeno la promessa di un aumento. La pandemia ha portato allo smart working, il lavoro on line da casa. Passata la necessità dello smart working, c'è chi ancora resta al lavoro on line anche di sera e nei fine settimana, magari nella speranza di una promozione.

Attraverso internet il lavoro dunque striscia nelle case e nella vita, così si diventa virtuali o ibridi. Basta anche solo uno smartphone. E-mail, messaggi scritti e audio su WhatsApp e Telegram, oppure le care vecchie telefonate ci rendono reperibili sempre. Vista la concorrenza nel mondo del lavoro, nessuno vuole sembrare poco disponibile. Dire di sì non costa nulla, almeno così potrebbe sembrare. I sì aumentano anche quando si sta fuori dall'ufficio. Così, le richieste diventano sempre maggiori e il lavoro tossico. Non si stacca mai.

La soluzione può essere la via di mezzo: ritrovare il proprio work-life balance. Tradotto in italiano, vuol dire ritrovare un personale equilibrio tra lavoro e vita privata. Citando di nuovo una locuzione latina: in medio stat virtus. Essendo però miliardi gli esseri umani, altrettante sono le possibilità e le scelte di vita, così come diversi sono i tipi di equilibrio possibili. Ad esempio, chi lavora in smart working potrebbe darsi degli orari, separando i momenti di lavoro dalla vita privata.

Al contrario, chi lavora in ufficio dovrebbe cercare di non portarsi il lavoro a casa. Una volta chiusa la porta dell'ufficio, il lavoro non deve uscire. Le preoccupazioni, le scadenze e i doveri lavorativi vanno lasciati dietro la scrivania, salutati il sabato e ripresi il lunedì martina. Il punto è fare in modo che la vita lavorativa non invada quella privata e con essa la sfera sociale.

Un altro paletto che si dovrebbe mettere è quello per limitare l'eccesso di lavoro. Quando ci si accorge che si è raggiunto o superato il limite, un valido aiuto può essere offerto dai colleghi, oppure si potrebbe rinunciare ad alcune mansioni e cominciare a dire qualche no.

Anche le ferie e i permessi possono aiutare. Quando lo stress lavorativo si accumula e rischia di far soffocare, bisogna metterci rimedio prima che la situazione possa degenerare.

A monte resta la domanda chiave: sono soddisfatto del mio lavoro?

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