L'immigrazione può essere usata come arma

Le scelte fintamente umanitarie sui migranti vengono prese senza valutare i veri pericoli

L'immigrazione può essere usata come arma

L'immigrazione non è affatto un tema neutro. Forse perché in un mondo globalizzato tocca le vite di tutti. Le vite di chi viene lasciato indietro e non riesce a scappare da certi Paesi. Le vite di chi fa enormi sforzi per andarsene. Ma anche le vite di chi vede il proprio Paese riempirsi di persone che arrivano da lontano portando una cultura diversa, non sempre integrabile.

A questo che si è rivelato negli ultimi anni il problema dei problemi si risponde con un approccio ideologico. Si va da quello che potremmo definire immigrazionismo, quello che in Italia si declina nella politica del «vogliamoci bene», o - anche qui ma soprattutto in altri Paesi - nel senso di colpa da ex colonialisti, che piace a sinistra. Dall'altro lato invece si assiste alla costante dei proclami di un certo tipo di destra che immaginano «muri», o cacce agli scafisti che, nella pratica, risultano difficilmente edificabili o realizzabili. Bisognerebbe avere il coraggio di esaminare la questione in maniera meno di pancia. Che senso ha invocare continuamente una politica delle porte aperte per scoprire che decine di migliaia di persone in Italia sono utilizzate solo e soltanto come manodopera schiavile per la raccolta dei pomodori? E più irregolari ci sono più è facile lo sfruttamento? Questo al netto di quanto è difficile bloccare il fenomeno, sul quale nessuno può pensare di avere la bacchetta magica o che basti fermare qualche nave di Ong per svoltare.

Partiamo invece dalle analisi, dati alla mano, messe in campo da alcuni economisti e sociologi. Resta capitale un saggio scritto qualche anno fa da Paul Collier, Exodus, che analizza anche i danni, involontari, che chi parte fa al Paese che lascia. E noi italiani della fuga, secolare e dolorosa, di braccia e cervelli dovremmo saperne qualcosa anche senza saggi. In alcuni capitoli di Exodus Collier rovescia l'ottica abituale e fa un'analisi dei Paesi da cui si emigra, con grande attenzione alla situazione di chi resta. Spesso chi va via è chi ha la forza (economica o morale) di scappare. Dietro di sé lascia i più deboli e i più poveri. Quando a scappare è una minoranza vessata è molto probabile che il governo non democratico che la vessa diventi ancora meno democratico.

Collier cita l'esempio dello Zimbabwe di Mugabe da cui è fuggito più di un milione di persone. Certo, in altri casi chi è emigrato in Paesi democratici diventa un tramite, diffonde quello stile di vita e di comportamento anche in patria. Tutto però dipende dalla possibilità e dalla volontà di rientrare, che spesso mancano. Capo Verde ha una forte emigrazione e il suo sistema di governo migliora; l'Eritrea altrettanto e non ne trae alcun beneficio. Haiti, per fare un altro esempio, ha perso l'85% della popolazione istruita. E le famose rimesse? Non sembra siano mai davvero in grado di far decollare un Paese povero. Collier lo spiega bene: «I movimenti migratori che fanno la differenza non sono quelli diretti verso le città dei Paesi ad alto reddito, ma quelli diretti verso le città degli stessi Paesi a basso reddito (africani ad esempio, ndr)». Insomma, alla fine andarsene all'estero può essere un danno verso coloro, più deboli, che restano a casa.

Ma al di là delle scelte dei singoli e dei loro effetti, e questo è uno dei dettagli che più viene omesso nelle analisi di chi vede nell'immigrazione solo ricerca di libertà e di opportunità, le migrazioni sono, anche, componenti fondamentali (e anche strumenti fondamentali) della politica estera.

Lo erano nel XX secolo e lo sono, ancora di più, nel XXI secolo. L'argomento non sarà gradito ai politici e ai politologi, ma Erdogan, e anche Putin grazie ai profughi ucraini, hanno reso evidente quanto facilmente possano essere utilizzate come strumento politico di pressione, come fossero un'arma. Per dirlo in modo più terra terra: un governo militarmente più debole può creare un flusso migratorio, o utilizzarne uno già esistente, per ottenere in modo coercitivo quello che non potrebbe ottenere in nessun'altra maniera. Si tratta di una pratica molto più comune di quanto si possa pensare. Qualche esempio? È la minaccia che il premier cinese Deng Xiaoping (1904-1997) utilizzò per «ammorbidire» Jimmy Carter, nel 1979, durante uno degli storici incontri che portarono all'apertura tra Usa e Cina. Carter sostenne che gli Stati Uniti non avrebbero aperto il libero commercio con la Cina fino a che la Cina non avesse mostrato maggiore rispetto dei diritti umani. Deng chiese se tra questi diritti ci fosse anche quello di emigrare liberamente. Carter imprudentemente confermò. Deng deliziato: «Va bene, allora, esattamente quanti cinesi le piacerebbe avere, signor Presidente? Un milione? Dieci milioni? Trenta milioni? Non c'è problema». La questione dei diritti umani in Cina uscì dal panorama della trattativa. Quella fu una pura e semplice minaccia. In molti altri casi, sono state deliberatamente aperte frontiere o spinte alla fuga intere popolazioni. Il caso più noto: quando la Nato intervenne in Kosovo, il 24 marzo 1999, il presidente serbo Slobodan Milosevic mise in movimento le sue truppe per spingere fuori dal Kosovo quasi 800mila persone. L'obiettivo dei serbi era solo in parte quello di una pulizia etnica. Sapendo benissimo di non poter battere la Nato, al leader serbo sembrò che riversare profughi sull'Europa fosse una mossa destabilizzante. Militarmente, la sua mossa risultò inutile, per quanto devastante dal punto di vista umanitario. Ma in realtà gli studi più recenti, come Armi di migrazione di massa, della politologa Kelly M. Greenhill dimostrano che, mediamente, l'utilizzo di flussi migratori è un'arma altamente efficace. Se prima abbiamo citato la Cina come potenziale aggressore demografico degli Usa, i cinesi sono stati più volte ripagati con la stessa moneta dai nord coreani. Pyongyang ha aperto le frontiere verso la Cina quando i cinesi hanno cercato di imbrigliare il regime. La strategia riesce anche meglio con Paesi che rientrino nel novero delle «democrazie avanzate». In Paesi così i risultati e i costi di una immigrazione di massa si pagano dopo anni e per anni, le spaccature politiche si evidenziano subito. Sotto pressione, il sistema politico, che si polarizza tra pro e contro i nuovi venuti, può facilmente collassare. Per capirci, quello stesso tipo di ricatto che verso l'Europa utilizzò più e più volte Gheddafi e ora i signori della guerra libici. Secondo la Greenhill il 57% delle volte chi è stato investito da un flusso migratorio ha capitolato verso chi glielo ha scatenato contro.

Un risultato paragonabile a quello della deterrenza militare Usa e migliore di ogni deterrenza attraverso sanzioni (33% di successo) o iniziative diplomatiche (19%). E su questo bisognerebbe riflettere, non essere ideologici.

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