Livia Pomodoro, la sinistra "candida" la toga d’acciaio

Dopo un lungo tam tam il presidente del tribunale apre uno spiraglio: «Sono contenta che Milano mi ami e che pensi a me per governare bene»

Livia Pomodoro, 
la sinistra "candida" 
la toga d’acciaio

Una volontà di acciaio nascosta nel guanto di un fisico morbido: questa è Livia Pomodoro. E da qui bisogna partire per capire quali siano le possibilità reali che questa signora di settant’anni dai modi garbati e dalla robusta capacità di lavoro si avvii davvero sulla strada - breve ma lunga - che separa Palazzo di Giustizia da Palazzo Marino. Poco più di un chilometro, ma due universi lontani, spesso incomunicanti.
Sarà lei, oggi presidente del Tribunale, il candidato sindaco cui il centrosinistra si affiderà l’anno prossimo per cercare di scalzare Letizia Moratti? A sorpresa, dopo un tam tam che andava avanti da qualche settimana, ieri è la diretta interessata a lasciare una porta aperta: «Posso solo dire di essere molto contenta che Milano mi ami e pensi che io sia una persona che saprebbe governarla bene». Non è una accettazione della candidatura. Ma, indubbiamente, non è neanche un diniego. E poiché si tratta di una donna abituata a centellinare le parole, si può giurare che ci sta facendo un pensierino.
La storia di donna Livia insegna però che siamo di fronte ad una donna concreta. Molto concreta. Una a cui le battaglie di testimonianza non sono mai piaciute. Se accetterà la candidatura, lo farà solo perché si sarà convinta di potercela fare. Di questa concretezza diede prova già molti anni fa, nel 1991, quando scelse di andare a Roma a fare il capo di gabinetto del ministro della Giustizia Claudio Martelli - un socialista contestato da buona parte della magistratura italiana - convinta di poter difendere la sua visione della giustizia meglio in quella trincea che nel suo ufficio milanese; una scelta simile a quella fatta da Giovanni Falcone, anche lui salito da Palermo a Roma a lavorare con Martelli.
Accanto a Martelli, la Pomodoro restò sino alla fine di quei due anni di fuoco. Fu anzi lei a dover annunciare al ministro che la fine era arrivata. Da giorni il nome di Martelli girava sui giornali come possibile indagato dal pool Mani Pulite, lui voleva a tutti i costi farsi interrogare. La Pomodoro chiamò Francesco Saverio Borrelli, suo vecchio amico, fondatore insieme a lei e a Adolfo Beria d’Argentine della corrente di Impegno Costituzionale: l’area dei giudici moderatamente progressisti, nata in dissociazione con i furori di Magistratura Democratica. «Niente da fare, Livia», disse Borrelli: e fece capire che l’avviso di garanzia era imminente. Due giorni dopo Martelli si dimise.
Donna Livia tornò a Milano e si rimise la toga. E per lei iniziò la fase decisiva del suo percorso di giudice: i quattordici anni (una eternità!) alla guida del Tribunale per i minori. Universo delicato e terribile, di speranze e di violenze. Alla giustizia minorile la Pomodoro ha dato un volto nuovo, basato su un universo di comunità e di strutture di accoglienza, destinate a diventare il vero ammortizzatore delle tensioni. Ed è facile immaginare che proprio questo mondo, quello del solidarismo cattolico e dell’attivismo sociale, sia uno dei bacini elettorali dove una candidatura per il «sindaco Livia» raccoglierebbe più consensi.

Ma la Pomodoro è la prima per sperare di battere la Moratti serve molto di più, e che nemmeno basteranno i voti della Milano liberal e colta di cui è lei stessa esponente di punta, come lo era sua sorella Teresa, grande donna di teatro, morta due anni fa. Ed è per questo che prima di dire di dare l’assalto a Palazzo Marino ci penserà ancora a lungo: perché le battaglie non la spaventano, a condizione che si possano vincere.

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