Lombardini, il giallo del documento che spinse il magistrato al suicidio

La data dell’atto di perquisizione è precedente all’interrogatorio del pm sardo

Lombardini, il giallo del documento  che spinse il magistrato al suicidio

La sera dell’11 agosto del 1998, quando il procuratore di Cagliari Luigi Lombardini si suicidò, il procuratore generale Francesco Pintus disse: «Sono avvilito, disgustato. Sono indignato, senza fiato. Ora bisogna che la verità venga fuori. Bisogna che si sappia che Lombardini è stato oggetto di un’aggressione senza precedenti. Il dottor Lombardini era un buon magistrato e in cambio è stato massacrato. Bisogna che si sappia che da anni la procura di Palermo ha aperto la caccia nei nostri uffici giudiziari, che questi sono i metodi, sono venuti in cinque. Lo hanno sentito per sei ore, capite? Sei ore. Bisogna finirla, finirla...». Per queste parole Francesco Pintus fu querelato dall’allora procuratore di Palermo Giancarlo Caselli e dai suoi sostituti. Dopo sette anni, quattro querele, quattro processi di primo grado e tre processi d’appello, tutti vinti, ora Francesco Pintus, e il Giornale che aveva riportato il suo sfogo, hanno avuto definitivamente ragione anche dalla Cassazione, che ha scritto: «Pintus intendeva tutelare la figura morale di Lombardini, che essendo deceduto non si poteva difendere».
Se ne dovrebbe dedurre nell’ordine: che Luigi Lombardini era un buon magistrato e ha fatto bene Pintus ha tutelarne la figura morale; che Lombardini è stato accusato e massacrato ingiustamente e con un’aggressione senza precedenti dalla procura di Palermo, che da anni dava la caccia agli uffici giudiziari di Cagliari; che questi erano i metodi dei magistrati di Palermo e che con questi metodi bisognava finirla... E ci si deve domandare: a Palermo è veramente finita con questi metodi? E soprattutto: dopo sette anni e le assoluzioni di Pintus dalla querele di Caselli e compagni è venuta fuori la verità, tutta la verità? Come e perché Luigi Lombardini si è ucciso?
Sotto la montagna di carte che si sono trascinate e sono cresciute da processo a processo e sono arrivate fino alla Cassazione c’è un foglio imbrattato di sangue. È l’ultima pagina di un decreto di perquisizione: Luigi Lombardini reggeva questo decreto nella mano sinistra mentre con la destra si è infilato in bocca il revolver. Il fiotto di sangue è schizzato sull’ultima pagina e ha coperto i timbri e la firma di Caselli. Ma ha lasciato intatta e ben visibile la data apposta sotto il documento: Palermo, 5 agosto 1998. È dietro questa data che si cela l’ultimo mistero del suicidio di Lombardini.
Lombardini era stato accusato di essersi intromesso abusivamente e per tornaconto personale nelle trattative per il sequestro di Silvia Melis, la ragazza rapita nel febbraio del ’97 e liberata nove mesi dopo. Caselli e quattro dei suoi sostituti, competenti per le indagini, erano volati da Palermo a Cagliari quell’11 agosto del '98, avevano occupato militarmente con le loro scorte il palazzo di Giustizia e avevano proceduto a interrogare per sei ore Lombardini, tutti e cinque gli inquirenti, alternandosi nelle domande, e uscendo e entrando dalla stanza, come si vede in quegli uffici di polizia dei film americani sui gangster. Dagli interrogatori non era venuto fuori niente, come risulta dalle bobine delle registrazioni e niente di serio e di concreto, del resto, il procuratore e i pm avevano avuto da contestare a Lombardini, che risponde a tutte le domande, esasperatamente e inutilmente ripetitive, con chiarezza e precisione e non appare mai in difficoltà. A questo punto Lombardini è invitato a uscire e ad attendere fuori, e tutto sembra finito (e infatti l’avvocato di Lombardini lascia anche il palazzo di Giustizia), ma Caselli e i suoi sostituti si riuniscono per un breve conciliabolo (pomposamente definito «camera di consiglio») e quando ne escono, consegnano a Lombardini il decreto di perquisizione. Lombardini lo legge, ha il presentimento che dopo la perquisizione lo arresteranno, si chiude nel suo ufficio e si spara. Il punto è questo: a giudicare dalla data del documento, «Palermo 5 agosto 1998», che il sangue di Lombardini schizzato sul foglio non è riuscito a coprire e a cancellare e che continua a galleggiare su quel sangue, il decreto di perquisizione sarebbe stato emesso a Palermo cinque giorni prima dell’interrogatorio e Caselli e i suoi sostituti sarebbero volati a Cagliari con il decreto già in tasca. Ma ciò contrastava con il fatto che il decreto del gip di Palermo che autorizzava Caselli e i suoi sostituti alla spedizione di Cagliari mentre li autorizzava a procedere all’interrogatorio dell’indagato, dichiarava «inammissibile» la loro richiesta di ottenere l’autorizzazione al «compimento di altri atti che si rendessero indispensabili per il proseguimento delle indagini (come la perquisizione e magari l’arresto). Alle contestazioni che gli sono state fatte nel corso dei processi per le querele per diffamazione, i magistrati di Palermo hanno risposto sostenendo che si sarebbe trattato di un equivoco, che il gip li aveva autorizzati a decidere degli atti ulteriori, la perquisizione e eventualmente l’arresto dopo l’interrogatorio, e che sul decreto di perquisizione consegnato a Lombardini era rimasta la data di «Palermo 5 agosto» soltanto per errore e per la confusione del momento, e perché non fecero in tempo a modificarla con quella dell’11 agosto.
In ogni caso, la sequenza è impressionante e dimostra, ancora meglio, che tutto era stato deciso. L’autorizzazione del gip di Palermo all’interrogatorio risulta depositata alle ore 13 e 30 del 5 agosto; l’avviso per l’interrogatorio risulta spedito a Lombardini il 4 agosto, prima ancora del deposito dell’autorizzazione del gip; il decreto di perquisizione con la data (eventualmente) sbagliata viene mostrato a Lombardini dopo l’interrogatorio, e quando il suo avvocato, confortato dall’esito dello stesso interrogatorio e ignaro della (eventuale) ulteriore autorizzazione del gip di Palermo a procedere oltre, lascia il palazzo di Giustizia; Lombardini legge il decreto con la data di «Palermo 5 agosto», e capisce che hanno già deciso tutto, la perquisizione e l’arresto, a Palermo, e prima ancora dell’interrogatorio e a prescindere dall’esito dell’interrogatorio. È proprio quando vede la data che ci vomita su il suo sangue.


«Sono pervaso da emozione, turbamento, dolore - scriverà Francesco Pintus nel suo diario - i cinque procuratori venuti da Palermo sono tutti lì, e si apprestano a mettere in atto, presente il cadavere, quella perquisizione al cui annuncio Lombardini era corso avanti, si era chiuso nel suo ufficio e si era sparato. Mi allontano e mi segue il dottor Caselli, mi mette una mano sulla spalla e mi dice: mi dispiace».
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