Lotta continua contro la verità

La storia piegata alle esigenze di Sofri

Fino a ieri la storia ce l’hanno raccontata gli assassini. Ora che hanno cominciato a scriverla le vittime, narrandoci il dolore di crescere senza padre, di diventare adulti sentendo gli insulti contro chi ti ha generato, ora chi armò gli assassini, anziché ammettere le colpe e tacere, preferisce cercar scuse per sé e per i suoi complici.
Adriano Sofri, il professorino che insegnò la lotta continua a centinaia di ragazzi, in questo è tuttora un maestro. L’altro ieri sul Foglio ha scritto un’intera pagina a commento del libro di Mario Calabresi, il figlio del commissario assassinato da un commando di Lc. Un delitto per cui lo stesso Sofri è stato condannato a 22 anni di carcere. Più di 500 righe per autoassolversi, per dire che quei giovani che sognavano la rivoluzione non erano i migliori, ma neanche i peggiori. Un lenzuolo per sventolare ancora una volta la teoria dell’innocenza perduta per colpa dello Stato, ovviamente scritto in minuscolo. «Nel periodo in cui lo stato faceva male, e noi ci vendicavamo col rincaro delle parole», scrive l’ex capo di Lotta continua, «avemmo per la prima volta davanti agli occhi una vedova, due orfane». Una paginata per spiegare che sì, lui seminò odio, altri sangue, ma lo fecero per la vedova Pinelli e per le sue figlie. Lo fecero perché c’erano tutti quei morti «di stato», nella banca, nella questura. Quello Stato di cui era un «fedele servitore» il commissario Calabresi. Insomma, Sofri e i suoi compagni odiarono e agirono per colpa dello Stato. Persero l’innocenza, inneggiarono al fucile, diventarono terroristi, ma per reazione. Anzi, per difendersi: «Ce n’era abbastanza per agitare le notti dei paladini di vedove e orfani. E un delitto commesso dallo stato è peggio di uno privato».
Uno straordinario esempio di storia piegata alle proprie esigenze, un piccolo capolavoro di ipocrisia e di rimozione. Per Sofri tutto comincia il 12 dicembre del 1969, il giorno dell’attentato di piazza Fontana, una strage di Stato, ovviamente. Per sostenere la sua tesi dimentica la data di fondazione delle Br, che è antecedente all’attentato. Scorda la nascita del primo gruppo che scelse la lotta armata e l’omicidio, la banda XXII Ottobre. Cancella la morte dell’agente Antonio Annarumma, ucciso a Milano durante una manifestazione un mese prima della bomba alla Banca dell’Agricoltura. Rimuove gli attentati contro varie sedi di polizia e carabinieri che accompagnarono il ’69. Ha un’amnesia sugli appelli alla rivoluzione che Potere operaio lanciava alla piazza, al punto che il direttore della rivista fu condannato per istigazione alla rivolta contro lo Stato, resistenza alla forza pubblica, sequestro di persona e danneggiamento.
Leggendo ciò che ha scritto, si capisce che per Sofri la lotta continua, in particolare quella contro la verità. L’ex capo di Lc è disposto anche a consegnare alla storia una rivelazione, ossia la richiesta di una mazzetta di omicidi da parte dell’allora direttore degli Affari riservati, Federico Umberto D’Amato. Nel racconto dell’invecchiato leader della rivoluzione, la polizia ritorna assassina: voleva uccidere i militanti dei Nap, i Nuclei armati proletari. E a sostegno della sua tesi cita i compagni «manovrati e trucidati senza scampo» durante una rapina «seguita, se non promossa, dalle forze dell’ordine e lasciata svolgere fino all’uccisione dei suoi autori», «persone specialmente generose, trascinate oltre e contro le proprie convinzioni». Slogan vecchi: «Ps uguale Ss». Non importa se Lc, nel 1975, era ormai finita e di lì a meno di un anno sarebbe scomparsa. Federico Umberto D’Amato si rivolse proprio a lui per eliminare i terroristi. Nessuno ovviamente può confermare: D’Amato è morto, i compagni non sanno o non ricordano. L’unico che spalleggia Sofri in questo delirio giustificazionista è Enrico Deaglio, o meglio Deraglio, il direttore del Diario, un militante: prima dice di non saperne nulla, poi si fa tornare la memoria e «crede di ricordare», aggiungendo di condividere la decisione di Sofri di parlare ora: «È legata all’ultima fase di monumentalizzazione della figura di Calabresi, stiamo assistendo ad una riscrittura della storia così ufficiale, sigillata e ipocrita».
Gli ex capi di Lotta continua non possono accettare che le vittime raccontino gli anni di piombo, che riscrivano una storia che finora è stata narrata solo dagli ex terroristi. Non si può dire che furono ammazzati dei servitori dello Stato, delle persone perbene e oneste. Non si può svelare che il terrorismo ha per padri un pugno di giovanotti che avevano in sprezzo le vite altrui perché sognavano la dittatura del proletariato. Accettare la banalità del male, il delirio che stava dietro la rivoluzione, è uno sforzo troppo grande per questi comunisti ingrigiti.

Non possono riconoscere le loro colpe – senza se e senza ma – perché sarebbe come ammettere che loro non sono la meglio gioventù, ma la peggior vecchiaia. Continuino a cullarsi nella menzogna dello Stato che armò il terrorismo, ma almeno lo facciano in silenzio.

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