Lowry era un vulcano che zampillava poesia

La sua opera più nota è il romanzo "Sotto il vulcano", da lui definito "Divina Commedia ubriaca". Ma le sue poesie non sono da meno.

Ghignava, ipnotizzato, davanti alla bottiglia; del resto, faceva ipotesi intorno alle ombre. L'aveva inseguita fino a New York, era il 1936, si erano sposati due anni prima, in Francia. Jan Gabrial era bella, fatata, fatua; non sopportava che fosse perennemente ubriaco. Per lei, Malcolm Lowry si fa chiudere al Bellevue Psychiatric Hospital. «Dio, da' da bere al bevitore che si sveglia all'alba/ farfugliando in petto a Belzebù», latra nella Preghiera per gli ubriachi. Aveva cominciato a bere a 14 anni, veniva da una famiglia di ricchi commercianti di cotone, da ragazzino batteva tutti a golf. Ai piaceri del denaro preferì tuttavia la vita sull'oceano. «Ereditò la passione dal nonno materno, un celebre lupo di mare norvegese... Già a 18 anni fece un viaggio fino alla Cina», dice la sua nota biografica. In ogni caso, non ne uscì sobrio da New York. Trascinò Jan in Messico: il 2 novembre del 1936 sono a Cuernavaca. Comincia a scrivere Sotto il vulcano, che in fondo, prima di essere una «Divina Commedia ubriaca», è la storia di un amore malato, il tentativo, a testa in giù, nella spirale di uno zodiaco nero, di salvare il matrimonio ed esaudire i demoni. L'esito è - ovviamente - maledetto: Jan molla Lowry a Oaxaca, lui pubblica il suo capolavoro nel 1947, dedicandolo «A Margerie», la seconda moglie, attrice di secondo piano a Hollywood, musa, segretaria, infermiera, ordinata, rapida al bere.

Qualche astrologo si è figurato, in quel torbido 1936, nei recessi del Messico, l'incontro tra Malcolm Lowry e Antonin Artaud, approdato laggiù con l'intento di svelare i riti degli indios Tarahumara. «Noi partecipiamo a tutte le forme possibili di vita», aveva scritto Artaud sulla rivista messicana El Nacional: Lowry tentò, semplicemente, di disintegrare l'unica vita probabile, la propria. Dopo anni di vagabondaggi, da sonnambulo, morì nella campagna inglese, nel Sussex, era il 1957, aveva 47 anni, amava gli scorpioni. Desiderava essere postumo, e vomitare sui vivi, Lowry. La sua morte scoperchiò, in forma di appunti preparatori, il progetto di un ciclo narrativo immane, dal titolo The Voyage That Never Ends. Comprendeva otto libri e centinaia di poesie. Fu Lawrence Ferlinghetti, nel 1962, a pubblicare le poesie di Lowry, per City Lights, riconoscendone il genio sbilenco, la bella baldoria: «Lowry fa parte della schiera di grandi poeti come Dylan Thomas, che anche bevve e vide il ragno», scrive.

Quelle poesie, come L'urlo del mare e del buio, sono state pubblicate da Guanda nel 1972; ora ritornano sotto la supervisione di Massimo Bacigalupo per Crocetti e costituiscono la porzione più cospicua - e più interessante - dell'ultimo numero di Poesia. Allievo del disordine, figlio dell'improvvisazione, profeta nel caos, Lowry è poeta per estro, per muscolatura verbale: i versi lo attraversano come torce. Nel suo canzoniere dissennato c'è tanto Messico - «Il vulcano è scuro e subito il tuono/ inonda le fattorie./ In questo buio, penso a uomini intenti a procreare» -, un inno a Joseph Conrad - «uniti nel caso... a sognare altro caos, o la casa lontana» -, la mattanza della fama («Questo successo è come un cataclisma,/ la casa in fiamme, il boato del crollo», scrive in Dopo la pubblicazione di Sotto il vulcano).

Nel film di John Huston (era il 1984), il Console ha il volto vorace, virile nell'ossessione alcolica, di Albert Finney. Malcolm Lowry era più elegante, più tragico, più fragile. Nei sogni lisergici, cavalcava giaguari di giada.

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