L'ultima parola d'ordine: il velo emancipa la donna

Top model e sportive musulmane le testimonial della campagna in Francia, Germania e Italia

L'ultima parola d'ordine: il velo emancipa la donna

L'ultima rivolta francese è di poche settimane fa ed è stata guidata dalla seguitissima modella musulmana velata Rawdah Mohamed, norvegese di origini somale. Irritata dal voto favorevole di inizio aprile del Senato transalpino, che intendeva vietare il velo islamico alle minorenni, ha reso #PasToucheAMonHijab e #Handsoffmyhijab lo slogan sposato dalle celebrità musulmane di tutto il mondo: dalla schermitrice olimpica Ibtihaj Muhammad alla deputata statunitense Ilhan Omar, tutte a difendere l'emblema musulmano. È il movimento che vuole dire basta a «chi vieta alle donne musulmane di indossare il loro capo più tradizionale, il velo; a chi strumentalizza il loro corpo con politiche distanti dalla realtà; agli stereotipi che condizionano l'esistenza delle ragazze islamiche», così ha spiegato la scelta la modella che di fatto, per ora, ha impedito di liberare le minorenni dall'obbligo dell'hijab in Francia con un'enorme campagna anche su TikTok. Scimmiottando l'italico sostegno al Ddl Zan, ma ignorando, per esempio, la solidarietà a Saman - la ragazza fatta a pezzi in Italia perché dal velo al matrimonio, aveva detto «no» all'islam. Non sono mancati editoriali sulle riviste patinate. «Non possono nascondersi nei loro lussuosi uffici del Parlamento e regolare il corpo delle donne senza combattere», ha detto Rawdah mentre indossa il suo prezioso hijab griffato.

Osservazioni che fanno rima con il manifesto di Sumaya Abdel Qader per Vanity Fair Italia, «portare il velo è il più grande segno di emancipazione di una donna, oggi come oggi un atto ribelle e femminista».

Dalla Francia, passando per l'Italia, alla Germania. Là poche settimane fa, alla tedesca WDR, la tv pubblica locale del Land della Renania Settentrionale-Vestfalia, andava in onda un documentario per l'emancipazione del velo islamico, La mia testa. La mia stoffa. Un approfondimento per lanciare un messaggio chiaro ai tedeschi, «restituire, per quanto possibile, la normalità a un capo di abbigliamento socialmente e politicamente forte e controverso». Il messaggio corredato da una cascata di testimonianze di donne musulmane, che rivendicano il diritto al velo, simbolo del neo femminismo. Una coppia testimonial d'eccezione: Houaida Taraji e Almoutaz Tayara. Lei, Taraji, per anni vicepresidente della Comunità islamica in Germania (IGD) - la più grande associazione in Germania vicina ai Fratelli Musulmani e inserita, perché considerata pericolosa, nei rapporti annuali dell'intelligence tedesca. E Tayara, il cui marito è noto per essere tra i dirigenti dell'Islamic Relief, il più grande ente di beneficenza musulmano del mondo. L'organizzazione, secondo il ministero della Difesa israeliano, è finanziatrice di Hamas. Nessun riferimento a tutto questo nel documentario, ma perché sceglierli come protagonisti di un documentario sul velo islamico?

Chi debbano essere i riferimenti per i testimonial del velo se l'è chiesto anche la cantante di The Voice Francia, Mennel. «Ecco la voce che la Francia non tollera», così parlavano di lei le tv d'Europa per raccontare la forza della cantante con il velo. Quando quest'autunno se l'è sfilato raccontando di essersi allontanata dalle pressioni del marito, nessuno ha inteso dedicarle un editoriale, ha solo perso fan. Quindi quel velo di cosa o chi era simbolo? La risposta è appena arrivata da Aya Mohamed. Figlia di genitori egiziani, oggi è una milanese che gioca a fare la giovane modella tutta occidentale, ma velata. «È una forma di devozione, una questione di identità, di espressione di se stessi attraverso l'abbigliamento, una specie di bandiera».

È un gesto di tale emancipazione, che la giovanissima Lale Gül ad Amsterdam è sotto protezione per non volerlo più indossare. Ma è la parola bandiera a non poter essere ignorata. Il chador, e tutte le sue declinazioni, sono la punta di diamante dell'islamismo e gli dà una visibilità quasi pubblicitaria: non è un caso che la rivolta per il suo sdoganamento in Occidente sia guidata da note modelle islamiche.

La rivoluzione iraniana dei Khomeini del '79 ha avuto un ruolo immenso nella diffusione globalizzata del velo. Ne fece la bandiera del trionfo sugli Usa, quella capace di «lavare» la umma - la comunità dei credenti - dall'umiliazione della dominazione occidentale. Affermazione di identità, una moda per i vincitori, simbolo del ritrovato orgoglio dei musulmani. Il velo è il vessillo della rivoluzione islamica globale lanciata ancor prima dai Fratelli Musulmani. Ne fecero un fenomeno universitario prima, per arrivare poi al 1989 e ai fatti di Créteil, in Francia: le ragazze velate del liceo francese accreditarono il velo come né un obbligo culturale né religioso, ma morale per affermare la visibilità antioccidentale.

La donna accetta la gabbia portatile in Occidente, come diceva la Fallaci, per affermare la propria «identità», per tracciare la separazione tra musulmane e non.

Il grande successo degli islamisti è stato quello di aver fatto credere che il velo costituisse una prescrizione coranica. Ma è solo una ipersessualizzazione della donna in quanto tale e rivendica in se un'esigenza educativa.

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